Il passero solitario

[di Ernesto Giacomino]

Vent’anni fa c’era chi ne costruiva a iosa, bastava lasciassi il pianerottolo inabitato per qualche ora e d’improvviso pure là ti ritrovavi di colpo panchine, fontane e una qualche carica pubblica col tricolore accorsa per l’inaugurazione. Che c’era talmente un’attenzione spasmdodica, a riempirci Battipaglia di piazze, che per un certo periodo dovemmo sospenderne la produzione perché non c’erano più ricorrenze a cui intitolarle.
Poi, come ogni cosa che (non) si rispetti, sono passate improvvisamente di moda. E non solo: oltre a non costruirne più, ci sono talmente salite sullo stomaco quelle già esistenti che tendiamo gradualmente ad abbandonarle. Che ne so: ci rifugiamo nei locali, pure con quaranta gradi all’ombra. Al massimo nelle strade. Ma piastrelle e panchine, bleah, che roba antiquata.
Di colpo abbiamo accantonato le partite a pallone con gli alberi che facevano da porte, i capannelli di anziani nostalgici, lo struscio in loop strategico intorno a un monumento o una fontana. Non ci spacciano nemmeno più, nelle piazze, fate un po’ voi.
Accessorio urbano obsoleto, dunque. Forse è per quello che nemmeno ci si cura più di farci la manutenzione, salvo arrivare ogni tanto con la motosega e mettere giù un albero per ridare la visuale sulla salumeria alla signora del primo piano (è per controllare se c’è fila, così scende più tardi). Per il resto, lo si vede, no? Betonelle saltate, fontane otturate, muretti insozzati con temi porno che però si ripulirebbero facile con una passata di spugna. La piazza dà, la piazza prende. E se è un discorso che posso ritenere naturale e scontato per quelle di ultima generazione (quelle mai frequentate, piccole, improvvisate, volute più per vezzi estetici che per vera funzionalità), andrebbe capito il perché del reciproco disinteresse, che ne so, tra piazza Amendola o piazza della Repubblica e i relativi ex frequentatori. Un po’ come quel fatto dell’uovo e la gallina: è nata prima la desertificazione o il degrado? Davvero la gente preferisce affollarsi tra i miniobelischi al sole di via Italia, piuttosto che rimettere la testa sotto il fresco d’un platano?
Proviamoci, dai. Ripristiniamo gli ambulanti di lupini e noccioline, i figli con i tricicli, i psss… in tondo per fermare e conoscere le ragazze. Facciamo una colletta e ridiamo l’acqua alla fontana della Madonnina, ad esempio. A metà degli anni ’80 ci montarono dentro un gioco di spruzzi e fari che Cibele levati. Durò un paio di mesi, grosso modo. Almeno a pieno regime. Poi, un po’ d’alternanza a singhiozzi, un giorno sì trenta no, e via via a calare, e oggi, paf: l’acquitrino.
Quando la ripiastrellarono, piazza Amendola, ci fu commozione collettiva. Guardala ora, specie sotto i tronchi degli alberi: la rivolta delle radici, le mattonelle divelte e frantumate. Muraglie architettoniche, più che barriere. Come peraltro a piazza della Repubblica, che una vera ripavimentazione non l’ha mai nemmeno avuta.
Nossignori, popolo, convertiamoci. Tutti lì a scappare per litorali e pozze di mare sporco come s’affaccia un accenno di sole vero, ma perché? Smettiamola di fare i tipi da spiaggia: siamo provinciali, rustici, genuini. Torniamo, com’è giusto, a fare i tipi da piazza.

5 maggio 2018 – © riproduzione riservata
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