Difetto di costruzione

[di Ernesto Giacomino]

Ascolto sempre con perplessità i battipagliesi che vivono trapiantati altrove, e che quando tornano in terra natìa per qualche giorno trovano sempre il modo d’uscirsene con la frase-tormentone del decennio: “Ma com’è diventata brutta, la mia Battipaglia, ma che le avete fatto?”
Ecco. Io capisco la lontananza, ci mancherebbe. Capisco la nostalgia, che ci ribalta i ricordi attraverso una specie di velo romanzato, e lì dove c’era l’erba e adesso c’è una città ricordate giardini di zucchero filato, luna park sfavillanti e panchine in oro zecchino. Capisco magari lo stato preinfluenzale di parecchi, in questo periodo, e quella sensazione d’intontimento da antibiotici che dà disturbi di percezione. Capisco le festività natalizie e l’esigenza, a tavola, di tenere il passo allo zio sbruffone che v’ha sfidato a chi tracannava più limoncello. 
Capisco tutto, o quasi, insomma. Ma che ricordiate una Battipaglia in qualche modo diversa da quella attuale, e beh, lì non ci arrivo. Parlo di evidenza, insomma: di una realtà che può piacere o non piacere, ma che non sembra che negli anni abbia mai mostrato nessun balzo o picco estetico, verso l’alto o verso il basso. Battipaglia è questa dalla nascita, magari s’è solo moltiplicata quantitativamente, ma una qualità così superiore a quella di adesso francamente non la ricordo. Né io, né un paio (o più) di generazioni precedenti alla mia.
Anzi: è un discorso che sarebbe pure fuori contesto, perché quaggiù non s’è proprio mai ragionato, in termini di bellezza. Viviamo in una città sorta non per spirito mecenatesco d’un qualche signorotto rinascimentale, ma sostanzialmente per dare alloggio a chi nelle nostre terre ci si trasferiva per lavorare: tra i campi, nelle botteghe o nelle prime industrie che s’andavano insediando. Un’esigenza che, contestualmente, si tirava dietro un dimensionamento adeguato di servizi (scuole, medici, caserme, qualche punto ricreativo) e un’edilizia a ritmi forsennati, all’urlo di “ficchiamocene dentro quanti più possiamo”. Finalità diverse e particolari, condivisibili o meno, che tagliavano fuori il romanticismo, l’ordine, la poesia, l’architettura armoniosa, i vincoli paesaggistici, la priorità del verde pubblico. Battipaglia è venuta su con l’identità di un capannone industriale: sono strumentale, esisto per fabbricare. Un prodotto di laboratorio uguale ad altre migliaia disseminate nel mondo: come Wolfsburg per la Volkswagen, per dire, o la Silicon Valley in California.
È il suo humus, non c’è di che correggere o rettificare più di tanto, andrebbe sradicata dalle fondamenta e riconcepita pezzo per pezzo. E a quel punto non sarebbe più la stessa cosa. Non sarebbe le mille contraddizioni che oggi diciamo di odiare e che in realtà abbiamo sempre serenamente tollerato. Non sarebbe la nostra storia di ginocchia sbucciate nei dedali di vicoli concepiti senza regole urbanistiche, di bracieri e comari davanti alle case-garage nelle sere d’inverno, del sole a picco su palazzoni moderni infilati tra ruderi sverniciati.
È una compagna di vita, insomma: che magari non abbiamo scelto, che c’è stata imposta per matrimonio combinato, che sotto sotto non c’è mai piaciuta davvero. Ma a cui, negli anni – è inutile negarlo – abbiamo finito per affezionarci. 

11 gennaio 2020 – © Riproduzione riservata

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