Usufrutto e abitazione

[di Chiara Dentato, notaio]

L’usufrutto nel nostro ordinamento è inquadrato tra i diritti soggettivi, reali e parziari, in quanto espressione – al pari della proprietà – del rapporto tra un soggetto e un bene (mobile o immobile), e tuttavia minori, in quanto privi dell’assolutezza propria del diritto di proprietà, dovendo esso coesistere con un altro diritto che è quello di nuda proprietà.
Il diritto di usufrutto è considerato, a tutti gli effetti, il diritto più vicino a quello di proprietà, potendo il titolare godere della cosa, pur senza abusarne e senza modificarne l’originaria destinazione. Esso è per definizione un diritto temporaneo, che cessa definitivamente con la morte del suo titolare, ovvero con lo spirare del termine di durata stabilito, di guisa che eventuali atti di trasferimento posti in essere dal titolare dell’usufrutto non possono che durare quanto la vita del disponente stesso (o comunque non oltre il termine di durata dell’usufrutto, quale originariamente convenuto) e ciò al fine di non pregiudicare le opposte ragioni del titolare della nuda proprietà, la cui legittima aspettativa al consolidamento è stata valutata ab origine proprio in ragione della possibile durata del diritto di godimento a favore dell’usufruttuario.
Essendo il godimento della “res” riconosciuto all’usufruttuario, al medesimo spetta ogni profitto dalla cosa retraibile: l’usufruttuario percepirà, dunque, i frutti della cosa, avrà diritto ad incamerare i canoni di locazione per l’ipotesi di affitto dell’immobile, le relative utilità, dovendo naturalmente rispettare la destinazione impressa al bene e dovendo altresì sopportare gli oneri e pesi, anche fiscali e tributari, connessi al bene medesimo.
All’usufruttuario, in ragione del possesso, compete anche l’onere dell’ordinaria manutenzione della cosa. 
L’usufrutto è un diritto gravabile; esso è ipotecabile e pignorabile, ma per le stesse motivazioni sopra esposte, l’eventuale garanzia non potrà che essere commisurata alla durata stessa del diritto reale di godimento, con l’effetto di far rientrare – all’atto del consolidamento in capo al nudo proprietario – il bene libero da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli.
A differenza dell’usufrutto, il diritto di abitazione – pur se inquadrato tra i diritti reali di godimento al pari del primo – rappresenta un diritto sensibilmente diverso, per il quale il codice civile stesso detta regole differenti di disciplina e di governo.
L’abitazione non è un diritto cedibile, per espresso divieto contenuto nel codice; spetta al suo titolare per soddisfare la sua esigenza abitativa ed è riconosciuto limitatamente a questa esigenza, tanto che non è consentito di poter locare l’immobile gravato, appunto, dal diritto di abitazione. Esso trova la sua fonte nella legge (pensiamo al diritto spettante al coniuge superstite si sensi e per gli effetti dell’art. 540 2 co. Cc, sulla casa adibita a residenza della famiglia) ovvero nella volontà delle parti. A differenza dell’usufrutto, il diritto di abitazione non è ipotecabile, né può essere oggetto di pignoramento.
Un unico punto di contatto tra i due diritti, è data dal calcolo del valore riconosciuto agli stessi ai fini fiscali: entrambi, infatti, vengono commisurati all’età del relativo titolare, secondo tabelle e coefficienti forniti direttamente dal legislatore, in relazione all’aspettativa di vita della persona a cui favore sono costituiti.

Chi desidera porre un quesito al notaio Chiara Dentato
può scrivere a posta@nerosubianco.eu

7 febbraio 2020 – © Riproduzione riservata

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