Zattere sciolte

Stai tranquilla piccola mia, andrà tutto bene. Io e Luca aspettiamo qui, vedrai che non ci vorrà molto, forse meno di un’ora e sarà tutto finito –. Così dicendo le stringo forte le mani e le sorrido fiduciosa, guardandola dritto negli occhi: ha le mani fredde, come l’inverno che mi è appena sceso sul cuore mentre la guardo andare via caracollando dietro l’infermiera, piccola bimba sperduta sull’Isola che non c’è e che non ci sarà mai più d’ora in avanti.
La sigaretta mi lascia un sapore amaro e il fumo mi graffia in gola come carta vetrata. L’attesa è snervante, i minuti hanno il peso di ogni singolo decennio speso a lottare, ad urlare nei cortei, nelle assemblee, a scrivere fiumi di parole, a lavorare duramente per ottenere un blando riconoscimento di diritti sempre negati…donne come zattere sciolte in mezzo alle innumerevoli tempeste della vita, che pretendono a viva forza di poter decidere finalmente della direzione da prendere.
Luca intanto nasconde l’imbarazzo e, forse, anche la vergogna, dietro un sorriso forzato e qualche battuta inconcludente; ne abbiamo già parlato a lungo, sarebbe inutilmente doloroso riprendere l’argomento in questa squallida corsia d’ospedale. Sono giovani, ancora troppo giovani per affrontare il peso enorme della responsabilità di un figlio. Devono completare gli studi, decidere delle loro vite, crescere, innamorarsi ancora, ma soprattutto crescere. Lui è un ragazzone immaturo e irresponsabile: non sarebbe mai in grado di addossarsi il peso di una famiglia e rinunciare così alla propria gioventù, e lei è praticamente ancora una bambina, dolcissima e ingenua, con una marea di sogni da realizzare… e poi, come potrebbero mai spiegare ai loro padri di aver tradito la loro fiducia, di avere infranto per sempre le loro aspettative? Non si può, non è possibile ipotecare così due giovani esistenze e rinchiuderle per sempre dentro le sbarre delle convenzioni e della morale. 
Allora cos’è questa forte sensazione di disagio che non mi permette di guardarlo negli occhi? Perché sento un dolore acuto in fondo allo stomaco, una rabbia repressa che mi fa stringere i pugni? Perché continuo a ripetermi all’infinito che non è giusto, che non dovrebbe mai e poi mai accadere di dover prendere certe decisioni, che non si dovrebbe mai essere costrette a barattare una vita per un’altra…
Devo interrompere il corso tortuoso dei miei pensieri quando Angela rientra in corsia: la stessa infermiera di prima spinge con fare sicuro la carrozzella da inferma sulla quale è seduta. Ha lo sguardo perso nel vuoto, i bei riccioli scuri scomposti sopra il viso pallido, l’aria distrutta di chi è appena stato in battaglia… e ha perduto. 
Quando finalmente riusciamo a ritornare nelle nostre stanze al campus e l’aiuto a sdraiarsi sul letto, mi rendo conto che non è più la ragazza solare, sorridente, dallo sguardo acerbo da giovane cerbiatta che avevo conosciuto all’inizio dell’anno accademico: adesso il suo sguardo è offuscato da un velo di tristezza e di rimorso e ha la schiena curva, sotto il fardello che porterà con sé per il resto della vita. 
Provo un’immensa pietà per lei, ma non riesco a giudicarla, non ci sono mai riuscita, neanche quando ripenso con tristezza al suo bimbo mai nato. Vorrei poterla riabbracciare, dirle ancora che va tutto bene, che era l’unica decisione possibile, che la tempesta prima o poi si placherà e ci sarà una riva ad attendere quelle zattere.

Ornella Cauteruccio

7 marzo 2020 – © Riproduzione riservata

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