Umanodepressi

[di Ernesto Giacomino]

Ce n’era, coviddi. E c’è sempre stato. Come dire: ce n’era, ma a un certo punto non sembrava. Perché se a marzo-aprile, per fare una statistica di quante ruote forano, hai strumenti solo per contare le auto che vanno dal gommista, è chiaro che t’escono numeri d’un certo tipo. Poi se più in là hai anche l’opportunità d’installare macchina per macchina un qualche rilevatore particolare (che ne so, un sensore sui cric, una spia per gli sgonfiamenti troppo rapidi, un imprecometro per le urla dell’automobilista quando s’accorge che lo sterzo tira o l’avantreno sbanda) allora il discorso cambia. Ti viene fuori, a quel punto, ogni minuscolo dettaglio dello stato delle forature nazionali, finanche quelle delle ruote di scorta, del ruotino e di quella vecchia camera d’aria del vespino che non hai più ma che conservi per nostalgia in uno scaffale del garage.
Il totale è che sto chiudendo questo pezzo mentre a Battipaglia superiamo i duecento positivi, che se per un verso è un dato che allarma e spinge a inventarsi metodi di protezione alternativi (rifugi antiatomici, quarantena in grotte sottomarine, circumnavigazione del pianeta in mongolfiera fino a emergenza finita), dall’altro ti dice che no, non è mica detto che tutto d’un botto qui si sia passati dalla quiete del famoso ventre di vacca al terrore dello stare in trincea sotto i bombardamenti. La vera differenza, in verità, è solo nella consapevolezza. Sei mesi fa non c’era modo di saperne di più, sullo stato dei contagiati: i tamponi erano roba leggendaria, creature mitologiche metà provetta e metà cotton fioc, usati per formale conferma della patologia unicamente (e non sempre) per quei pazienti che salivano in barella dopo giorni di febbre e con polmoniti avanzate. Più che altro facevano statistica: e lì dove la statistica non serviva – tipo noi, cittadini potenzialmente malati come gli altri ma manifestatamente asintomatici – sotto l’aspetto dell’informazione sanitaria nazionale s’era pacificamente inutili. 
Poi da qualche mese s’è fatto il salto, si sono affinati i cosiddetti protocolli di tracciamento: roba che in fase teorica è bellissima, ha una meticolosità nel prevedere ogni caso, azione, reazione che quasi ti commuovi. Tutto talmente perfetto che più o meno funziona così: uno ha sintomi evidenti da una settimana, intanto il medico curante ha già dovuto aspettare due o tre giorni prima di segnalarlo per il tampone, e lui quindi sta aspettando da quattro che lo chiami l’Asl. Nel frattempo, oltre a chiudersi in casa coi familiari conviventi, sta cercando d’avvisare i contatti stretti, che ancora non è chiaro come si calcolino: più d’un quarto d’ora senza mascherina e senza distanza di sicurezza, oppure distanza sì ma mascherina no, oppure il contrario, il tutto comunque considerando il coefficiente d’areazione del locale, la direzione del vento, la data di costruzione del fabbricato e il tempo di permanenza di Giove in Acquario. E contemporaneamente il virus, contagiando indisturbato tra le pieghe dei rallentamenti, della burocrazia e della libera interpretazione un po’ di tutti, s’abboffa e se la spassa. 
Tra cercare ruote bucate o evitare che forino, insomma, cambia poco. Occorre prima capire, in ogni viaggio, in che direzione si vuole andare.

6 novembre 2020 – © Riproduzione riservata

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