Lo stallo dell’arte

[di Ernesto Giacomino]

Distraiamoci, va’. Per qualche minuto abbandoniamo numeri e statistiche, curve e tendenze, appiattimenti o ingrossamenti; lasciamo il pallottoliere con la conta dei tamponi, e i sintomatici e gli asintomatici e i non pervenuti; distogliamo l’orecchio dalle chiacchiere dei dirimpettai di balcone, cambiamo canale al televisore e sintonizziamolo su un film comico, su un musical, sui cartoni animati.
Per qualche minuto, solo qualche, fingiamo di tornare alla normalità e cominciamo a prendere nota delle cose di cui dovremo parlare, quando tutto questo sarà non dico finito ma almeno addomesticato.
Ad esempio: i lavori di rielettrificazione o roba affine assurti a cantiere eterno per la Battipaglia Imperiale. Via Mazzini, via Paolo Baratta, via Gonzaga e stradine annesse invase da ruspe, dissuasori, sbarramenti a spiovere. La sorpresa di svegliarsi ogni mattina e scoprire che t’hanno chiuso o ristretto una strada diversa. Percorsi alternativi da reinventarsi al volo; ok, ci sono quasi, taglio per la zona industriale, prendo l’autostrada a Eboli, arrivo a Sala Consilina e mi butto sulla litoranea: c’è un traghetto a Maratea fra giusto tre ore, massimo per ora di pranzo attracco a Salerno.
Dicono: “Eh sì, roba che andava fatta, non stiamo a lagnarci”, e osservazioni adiacenti. Come no, chi lo mette in dubbio. Piuttosto, il dubbio, è se davvero non ci fosse altro modo, per fare questi lavori. Scaglionarli, ottimizzarli. Dilatarli in orari meno trafficati.
Ma tant’è: non sono un ingegnere, non ne capisco e dolorosamente mi adeguo. Come dire: mi fido. Ciò di cui non mi fido, però, è quella cosa che ci viene promessa ogni volta che si mette mano a devastarci le strade: “l’asfalto sarà ripristinato a regola d’arte”. Infatti. Nel vicolo sotto casa mia c’è ancora una cicatrice, lunga l’intera dorsale, di quando arrivarono le condotte del metano: giorno più, giorno meno, una quarantina d’anni fa.
Diciamocelo: sono ancora poche, le strade indigene senza i segni di lavori fatti anni fa. Centinaia su centinaia di giorni in cui, dopo aver cucito e incollato o rappezzato, non c’è stato mai verso di sistemarle definitivamente. Niente: nessun rullo, pala manuale, capomastro di buona volontà, manco a passarci per caso e muoversi a commozione.
È una condanna: qualunque intervento più o meno invasivo sullo scheletro della città deve tirarsi sempre dietro uno strascico da sistemare. È il famoso meccanico che t’aggiusta la pompa dell’acqua ma non collega il radiatore, e poi collega il radiatore ma non cambia il valvolino. E ogni volta ti dice di ripassare, che lì per lì non te lo può fare, e fa niente se cammini un po’ con la macchina azzoppata, basta starci attenti.
Insomma: qua da noi pare proprio esserci un’avversione, per il decoro urbano. Ormai non è neanche più cattiva abitudine, viene più da pensare a una patologia rara. Occorrerebbe farne oggetto di sedute psicanalitiche; capire il momento preciso, o l’evento, nel corso della nostra storia, in cui abbiamo cominciato ad affezionarci così tanto al brutto.
Certo che no: non è davvero adesso, il momento di parlarne. Ma verrà il giorno in cui, più sereni e distesi, una vera ripulita dovremo pur darcela.

5 dicembre 2020 – © Riproduzione riservata

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