Mai dire maxi

[di Ernesto Giacomino]

L’Italia è un paese di santi, poeti e navigatori; ma solo per un tratto. Poi, scendendo a Battipaglia, si trasformano in barman, pizzaioli e supermercati.
In realtà, non c’è crisi più brutta della crisi delle crisi: ossia quando, di fronte allo sbandieramento d’una certa latitanza di consumatori, vedi il paradosso della proliferazione dei venditori: discount, centri di distribuzione iper/maxi/extralarge, condominii commerciali e baracche direzionali.
O ci si è, disperati, o ci si fa. Tutto qua, c’è poco su cui investigare. Per cui l’arcano non solo resta tutto, ma s’ingigantisce giorno per giorno. Tu lì, compresso tra gli equilibristi della fine del mese e le code per bloccare la cambiale dal notaio, ti sporgi un po’ sul greto e vedi un curioso canale double face di soldi che va controcorrente: capitali che non solo s’investono ma addirittura paiono rientrare con inspiegabile profitto. E così deve essere, ti dici, se nessuno mai, dal parto di saracinesca a oggi, ha davvero ammainato bandiera. Magari cambiano le insegne, le marche vendute, i soci, i consigli di amministrazione. Ma quel reale game over che quotidianamente sancisce la chiusura dei piccoli esercizi di vicinato, loro, paiono non subirlo mai.
Mi sovviene una battuta d’un mio amico di qualche anno fa, quando in centro, per un po’, si verificò tutto un raptus d’inaugurazioni di bar più o meno grandi, dai chioschetti alle intere palazzine passando per tinelli e stanze ammobiliate. Per un po’ lui camminò, osservò in silenzio, poi sbottò: “ma tutti ‘sti caffè, alla fine, chi se li beve?”. Ecco, qui è uguale: tutte ‘ste vorticose e roboanti offerte di lattughe in busta, bricchi di vino, tostapane, sveglie elettriche, televisori a led, jeans stone washed, baccalà alla ‘nduja, rotoloni assorbenti, impianti hi-fi, bigattini da lago, caffettiere per orzo, babbucce antistatiche, il tutto moltiplicato per enne supermercati e megastore – confinanti, se non adiacenti, se non uno nell’altro col metodo matrioska – alla fine, chi se le compra?

E beh: mica parecchi, alla fine. Anzi, pochi. Così pochi, alle volte, da sembrare pellegrini abusivi in cappelle sconsacrate, o quei grumi rarefatti di turisti a Roma in pieno ferragosto. Li vedi vagabondare in questa serie interminabile di capannoni illuminati a giorno, scaffali traboccanti di merce, con la filodiffusione a palla che invita a comprare, approfittare, ammucchiare. Poi, intorno, il deserto. Una sola cassa funzionante su un totale di almeno quattro, commessi spaesati che giocano a sudoku o fanno tornei di campana sulle piastrelle lucide. Più che lo svolgimento di un’attività commerciale, paiono le prove generali di una recita. Tant’è che un quarto d’ora prima della chiusura già si vedono smorzare luci e calare saracinesche a mezz’asta. E, più o meno nello stesso istante, si comincia a spazzare e spolverare, ci s’ingegna in moduli e formule matematiche per verbalizzare quel po’ di denaro passato per la cassa. Come se fuori ci fosse la fila per entrare, e quel flusso di clienti immaginari potesse costringerli a violare l’orario sindacale.
Se poi, di mezzo, ci sono generi alimentari deperibili, succede anche peggio: la processione dell’invenduto. Chili di pane, litri di latte. Tutto fresco, tutto da ritirare in fretta dagli scaffali e buttare. Un’offerta che eccede esponenzialmente la domanda, ma senza alcun effetto sui prezzi. Inspiegabile, se ci si attiene alle leggi dell’economia; benpiù logico, forse, se ci spostiamo su tutt’altra scienza.

4 maggio 2012 – © Riproduzione riservata

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