E tutto il mondo fuori

[di Ernesto Giacomino]

Pochi se ne stanno accorgendo, ma c’è un ulteriore fenomeno tipicamente battipagliese, una tradizione ultradecennale se non secolare, che si sta definitivamente avviando a lasciarci: la cultura del garage. Capiamoci: non quello pubblico, multiutenza, a pagamento; e nemmeno il box seminterrato dei moderni parchi residenziali, con la porta di lamierino basculante e lo spazio interno misurato al millimetro a seconda del tipo di macchina dichiarata in sede di costruzione.
Il garage che dico io è quello sotto casa, nei vicoli dei rioni, con la saracinesca (prevalentemente a chiusura manuale, nonostante qualche moderna botta d’automatismo apprezzabile qua e là) che produceva un fragore secondo, per decibel, solo al rombo dell’eruzione del 1883 del vulcano Krakatoa. Grande, in pianta, quasi quanto la stanza del salotto buono, e alto il necessario per montarci un soppalco e togliersi lo sfizio della doppia opzione tra guardare il mondo dall’alto o fronte strada.

Voglio dire: raramente si fittavano o compravano per metterci dentro le auto, questi locali qua. Certo, succedeva pure questo, ma solo in tarda serata se non prima notte; per il resto della giornata erano altro. Erano circoli di ricreazione, ad esempio: miniclub di briscola e tressette dove gli anziani del quartiere, per ore, si massacravano d’urla e tirate da cento lire a partita. Erano laboratori artigianali, poi, dove il falegname in pensione continuava a intagliare e levigare mobili e suppellettili per amici e familiari; erano officine del vicino “che ne capiva un po’ di meccanica” e s’era attrezzato in autonomia per cambi d’olio in nero e prezzi popolari. Ed erano, alle volte, anche luoghi di assoluto mistero, laddove il proprietario sceglieva di non offrirne la vista agli estranei e ne bardava l’ingresso con lastroni di compensato o di plexiglas affumicato, e solo a pochi eletti era concesso spingersi oltre quel confine, dovendo gli altri accontentarsi di sedere e conversare sulla soglia,

Soprattutto, però, per parecchi i garage erano posti di totale, assoluto, incondizionato relax: una casa nella casa, luoghi in cui appartarsi per non disturbare e restare indisturbati, ascoltando il calcio nella radiolina o mettendo sul fornellino da campeggio quel caffè di troppo che una moglie troppo attenta a trigliceridi e pressione avrebbe sicuramente vietato. La versione terranea del famoso “soffittizzatevi” di Totò, insomma: conviviamo distanti oggi per riavvicinarci con calma domani. Ché togliersi un marito brontolone dai piedi pur tenendolo sotto controllo con una semplice occhiata dal balcone, o prendersi qualche ora di evasione sapendo d’essere sempre a poche rampe di scale dalla cena calda, era un po’, ai tempi, l’equivalente della moderna vacanza nel villaggio turistico “full comfort”: tu a zumba, io in piscina, e il bungalow a tre passi da entrambi.

Ce n’è così tanti, di garage storici, nei rioni in cui ho vissuto, che spesso i proprietari o gli occupanti mi pare ancora di vederli, nonostante siano scomparsi da anni. Assorti nelle loro sedie pieghevoli, loro: occhio attento sulla strada, qualche pallone che rimbalza intorno e la perpetua minaccia di bucarlo. Sempre col ghigno, però, di chi è troppo sereno per dirlo seriamente.

27 febbraio 2021 – © Riproduzione riservata

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