Giocare è una cosa seria
[di Anna Lambiase, psicologa]
La psicologia ha da sempre studiato e approfondito le dinamiche relazionali e sociali che sono alla base del gioco del bambino. Abbiamo tutti noi memoria di racconti che risalgono ai giochi fatti per strada, in gruppo, con i tappi delle bottiglie o con altri materiali grezzi recuperati dove capitava. La ludoteca era la strada sotto casa e i genitori non avevano timore di lasciare i figli all’aperto. Ma come ben sappiamo, i tempi cambiano e anche le generazioni sono promotrici di cambiamento. Internet ha sviluppato dinamiche di relazione ludica dal gruppo al singolo. La vita relazionale non si cerca più fuori casa, ma dentro lo schermo del pc. Allora, abbiamo perso l’abitudine a ricercare il gruppo come risorsa e il gioco come modalità di interazione. Ma cosa simboleggia la funzione del “gioco”? Cosa rappresenta per l’essere umano giocare e, soprattutto, “mettersi in gioco”?
Giocare è sempre stata una funzione vitale, sia per gli esseri umani che per gli animali. Giocando, riconosciamo l’Altro nella relazione e, soprattutto, è di fondamentale importanza per lo sviluppo cognitivo del bambino. La psicologia infantile ha fatto del gioco un vero e proprio oggetto di studio: secondo Piaget, psicologo svizzero, è l’attività principale del bambino per lo sviluppo cognitivo e l’imitazione. Il gioco, inizialmente, è un adattamento del bambino all’ambiente e ogni volta che si acquisisce un’abilità, la si ripropone con oggetti nuovi.
Questo spiega l’evoluzione della crescita del bambino mediante diversi stadi del gioco: quando ha un anno, tocca tutto ciò che è attorno a lui per interagire con l’ambiente circostante. Verso i diciotto mesi inizia il “gioco simbolico”, ovvero ripropone come simboli gli oggetti non presenti e sviluppa così l’immaginazione. Iniziano poi i “giochi sociali”, imprinting per le relazioni future e per interiorizzare modelli positivi. Attraverso l’acquisizione delle regole, il bambino le interiorizza e poi le ripropone nella vita di tutti i giorni. Per questo, il gioco è vitale e non si deve sottovalutare la sua importanza. Il bambino necessita di interiorizzare l’esperienza del concreto per riproporre un modello. E attraverso il gioco che può scoprire molto di sé, come l’attitudine a voler per forza primeggiare, tollerare scarsamente la frustrazione o prevaricare troppo su un coetaneo o indietreggiare per timore. Verso gli 11-12 anni, i bambini iniziano ad “ipotizzare”, quindi dal gioco che presenta le sue regole imprescindibili, possiamo inventare e spaziare con la fantasia e questo accade perché le funzioni cognitive sono in fase di sviluppo e crescita. Di fatti, il gioco sviluppa le abilità cognitive quali problem solving, pianificazione e memoria di lavoro. Ma il gioco non è solo la base delle funzioni cognitive, ma è fondamentale anche per lo sviluppo emotivo. Secondo Vygotskij, nel passaggio dall’infanzia alla fanciullezza il gioco rappresenta uno strumento per la gestione delle emozioni, fondamentali per la realizzazione di desideri insoddisfatti o per superare difficili compiti evolutivi come il distacco dalla figura materna. Giocare, dunque, è una cosa molto seria.
Anna Lambiase, psicologa, esperta nei disturbi dell’apprendimento
17 luglio 2021 – © riproduzione riservata