Calcolisti Anonimi
[di Ernesto Giacomino]
Il bello delle elezioni locali, diciamocelo, è che puoi seguire work in progress tutte le strategie di liste e candidati man mano che si evolvono i fatti. T’imbatti nel conoscente-aspirante consigliere al tavolino del bar, e lui – che una volta t’avrebbe evitato, o al massimo liquidato con un frettoloso cenno di saluto – di botto non solo ti siede accanto, ma addirittura, dopo qualche chiacchiera di circostanza, sente d’essere entrato talmente in confidenza da cominciare a snocciolarti previsioni e metodologie di calcolo col quale non solo ha stimato i voti che prenderà ma anche il numero minimo sufficiente per essere eletto. Roba tipo che sommi le preferenze di lista all’età del suo candidato sindaco, le elevi a un numero pari al rapporto tra il numero dei segni zodiacali e le volte che Giove è entrato in Acquario a giugno, dividi per le scanalature della quarta colonna a destra del chiostro del Duomo di Amalfi, et voilà, il gioco è fatto. Numeri per aria, insomma, come se piovesse: cento voti sicuri qua, cinquanta promessi di là, trenta estorti col ricatto, venti fregati a quello che ho appena fatto litigare coi familiari. Che dai, magari ci scappa pure d’essere il primo eletto e a quel punto faccio il sindaco-ombra stile Occhetto nell’89.
Quand’è così, voglio dire, emerge chiara una dicotomia tra intenzioni e attuazioni: se, come vai ciarlando, ti sei candidato “per il bene della città” (modello “io non volevo, ma sai, la folla ha insistito”) e dunque si sottintende una certa fiducia che godresti da parte dell’elettorato, perché mai è così un’ossessione accertarti preventivamente che non fallirai l’obiettivo? Se vuoi salire a Palazzo perché la comunità ti ama e la cosa è reciproca, non devi fare altro che aspettare il responso delle urne e accomodarti al tuo scranno una volta eletto. Viceversa, vuol dire che ti sei sovrastimato, che la gente non ti fila poi così tanto e che quindi – proprio per quel “bene della città” di cui vai inondando i social – devi farti sontuosamente da parte. Immediato, semplice, chiaro. Pragmatico, addirittura.
È una cosa che vado dicendo da sempre, in realtà: o cinismo o poesia, non c’è altra strada. Tutto quello che c’è in mezzo è finzione. O l’affronti alla bohemien, petto al vento e fiaschetta in mano, col coraggio di predicare pane al pane, rischiare l’impopolarità in cambio della coerenza, e raccogliere i frutti – magari pochi, ma sinceri – di quello che hai seminato; oppure opti per una bella e schietta dichiarazione di guerra, nessuna pietà e niente prigionieri: fatemi salire lassù perché ci ho i miei intrallazzi, ho da piazzare un cugino assessore, voglio le strisce gialle sotto casa, sto corteggiando una che non resiste al fascino della delibera.
Che poi, in realtà, non sarebbero cose da chiedere a loro, ma a noi stessi. Se un candidato s’ingegna a cercare il modo di rappresentarci, e lo trova nell’ipocrisia, vuol dire ci ha già analizzati, studiati, vivisezionati, e il risultato è stato questo. Sa, quindi, che per una certa parte dell’elettorato “il bene della città” è un concetto impalpabile e furiosamente soggettivo. E può raccogliere, allora, sotto un unico vessillo tutti quelli che – per convenienza, o furbizia, o leggerezza – tendono a confonderlo col proprio tornaconto.
4 settembre 2021 – © riproduzione riservata