Lotta senza quartiere

[di Ernesto Giacomino]

Repubblica Federale di Battipaglia. No, serio: mi piace molto che da qualche anno in qua i candidati nostrani si facciano campagna elettorale girando per i rioni. Mi sa di visita del Papa in Nicaragua, di Dalai Lama che riceve gli studenti delle superiori, di Joe Biden che se ne va a spasso per Little Italy e compra pure gli arancini al chiosco d’un tizio con uno di questi nomi tipo Tony Bussola o Frank Cusumano.
Insomma, qualcosa sul genere “andiamo a incontrare realtà diverse dalla nostra, capiamo che stile di vita hanno, che problematiche ci sono sul territorio”. Come se Battipaglia s’estendesse anch’essa per qualche migliaio di chilometri in mezzo a due oceani, con tutta una serie di differenziazioni climatiche, etniche e geologiche. Con gap o vantaggi socioculturali, tradizioni diverse da un punto all’altro, frammentazioni linguistiche a seconda degli antenati conquistatori.
E no, invece: Battipaglia – il nucleo urbano, dico, campagne a parte – sta compressa in una trentina di chilometri quadri. Fatti salvi Belvedere e Taverna delle Rose il resto dei rioni è nel centro o, al massimo, gli tende il braccio. Che problemi o esigenze particolari potrebbero avere, gli abitanti della Stella e di via Olevano, che non siano gli stessi dei residenti intorno piazza della Repubblica? Di quale carenza d’infrastrutture potrebbero soffrire nel rione Sant’Anna che non sia stata già ampiamente avvertita in zona via Mazzini?
Per capirci, insomma: non è che puoi andare lì in stile Xi Jinping in visita a Shangai e dire “rafforzeremo le misure di prevenzione contro i danni da uragani, tipici di questa zona”. O calarti dall’elicottero col machete in bocca per combattere l’improvvisa invasione d’un qualche predatore tropicale. Sei a Battipaglia lì, e, allontanandoti di duecento metri, sei a Battipaglia uguale: stessa flora e fauna, stesso asfalto a terra, stessa pioggia o vento per aria.
Eppure no: loro, i candidati, una qualche diversità devono vederla. Perché ci vanno proprio in missione, per rioni. Raccolgono gente, promettono cose: “non resterete indietro, non vi abbandoneremo, penseremo soprattutto a voi”. Manco si trovassero in ghetti, in quartieri murati. In nazioni a parte governate da dittatori liberticidi: “vorrei tanto arrivare a via Italia a comprare un paio di scarpe, speriamo facciano sindaco Tizio così non mi fucileranno al confine”.
E quindi: successo totale. Bagni di folla, fotografie, giornalisti. Con loro, i futuri salvatori, che si soffermano ad accarezzare i bambini, a trasformare acqua in vino, a guarire gli zoppi e a salire sulla collinetta a dire le beatitudini.
Quando i fatti, in realtà, direbbero altro. E cioè che se ci sono carenze o degrado nei rioni non è perché sia così difficile raggiungerli, entrarci e risolvere il problema. Non siamo in “1997: Fuga da New York” e non ci sono le truppe del Duca a presidiarne l’ingresso. Semplicemente, un qualunque problema tocchi una realtà rionale è lo stesso problema che – magari con forme e intensità diverse – esiste al centro, qualche centinaio di metri più in là.
E se per qualche motivo una zona della città ne risente più di altre, fidatevi, l’emarginazione c’entra poco. È che se occhio non vede, e cuore non duole, l’autogestione di chi ci abita viene comoda un po’ a tutti.

18 settembre 2021 – © riproduzione riservata

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