I conti con l’oste

[di Ernesto Giacomino]

Il problema è quando tu sei ottimista e fiducioso per il lavoro svolto, e t’aspetti al massimo un messaggio breve, un bigliettino, una mail, un whatsapp con un paio di frasi tipo “ottimo lavoro”, “continua così”, e a seguire un paio d’emoticon tipo il pollice alzato o la faccina con l’occhiolino, e invece no, macché: zac, e t’arriva un papiello serioso e logorroico di ventisei pagine.
Non è mai roba buona, quand’è così. È un po’ come quando si facevano i compiti in classe vecchio stile, che il professore oltre al voto ti metteva anche il commento sotto; e allora già da lontano, mentre lui girava per i banchi a distribuire, sbirciavi la lunghezza del tuo: se c’erano poche parole, ok, o era davvero una monnezza inqualificabile oppure – più probabile – era fatto bene; viceversa, quando già dalla distanza scorgevi quelle quattro-cinque righe vergate di rosso, addio, al massimo t’eri piazzato tra il cinque e il sei meno, e tutto lo sproloquio sotto serviva a farti capire il perché.
Insomma, la delibera di approvazione della Corte dei Conti del nostro piano di riequilibrio suona in una maniera simile, alla fine è l’interrogazione sfangata con la sufficienza scarsa ma con la coda del cazziatone d’un quarto d’ora del professore che sta là a dirti: uh mamma, e meno male che t’ho fatto dire l’argomento a piacere, e anche il resto delle domande te le avevo già preannunciate da giorni, e tu niente, imprecisioni e approssimazioni e balbettamenti vari.
Non entro nel merito dei numeri, è chiaro, ché quelli vanno letti e interpretati con le competenze del caso, ed è risaputo che qua a Battipaglia io e la statua del milite ignoto siamo gli unici due profani in una pletora di oltre cinquantamila esperti di diritto degli Enti locali. No, a leggere quelle ventisei pagine ciò che mi sfianca di più è la ripetuta ed enfatizzata doglianza sui ritardi e le omissioni che avremmo mostrato nel corso delle varie tappe dell’istruttoria: roba che, dicono loro, ci chiedevano il tale documento, non lo inviavamo, ce lo risollecitavano, lo inviavamo incompleto, ci invitavano a completarlo, lo completavamo male, ci chiedevano spiegazioni, non le fornivamo. Insomma: pur se tra le righe, ci hanno chiamati a più riprese evasivi, negligenti, approssimativi. Arronzoni, per dirla all’inglese.
Chiaro che non so la ragione da che parte sia, ché nelle pieghe del burocratese ci si perde facile e una latenza fisiologica può passare per un silenzio colpevole. Né, a Palazzo, pare ci mancasse la gente competente per ottemperare professionalmente a tutte le richieste che via via ci atterravano sulla pec.
Mosse studiate, voglio credere. Quel dire “un attimo, tieni in mano, sto lavorando per te” che ci costringono a tirare fuori quando siamo particolarmente presi, affannati, indaffarati. Stiamo rimettendo in piedi un Comune, avranno detto, mica infilando la collezione dei Tex Willer sulla bancarella del mercatino parrocchiale.
Poi, va be’, ci sarà tempo per capire meglio. Per sentire le varie campane, le accuse e le difese, le interpellanze e le insistenze. Quello che non mi scende, però, è che ormai a Roma abbiano il dubbio che più che la patria della mozzarella, la capitale della Piana del Sele, la porta d’accesso ai paradisi del Cilento, siamo un’inguaribile infilata di dilettanti.

15 gennaio 2022 – © riproduzione riservata

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