Duecentottanta grammi di felicità
[di Crescenzo Marino]
Non avevamo bisogno di campi in erba e nemmeno di divise perfette e tutte uguali per giocare, bastava semplicemente la nostra voglia di divertirsi e un oggetto di appena 280 grammi, sferico e semplice, così banale e fragile, ma che costituiva il punto di partenza dei nostri sogni di gloria.
Nei primi anni sessanta, la Mondo, un’azienda torinese di proprietà di Edmondo Stroppiana, grazie all’intuizione di Stefano Seno, un suo operaio, ispirandosi alla vittoria del Brasile nei campionati del mondo in Cile nel 1962, iniziò a produrre una sfera che richiamava i colori e le strisce nere dei palloni di cuoio di quell’epoca. Nacque così il Super Santos, l’oggetto più desiderato, usato e acquistato dai ragazzi, e non solo, degli anni sessanta, settanta e ottanta. Bastava “averlo tra i piedi” e i vicoli, i cortili, le strade e le piazze si trasformavano in campi di calcio.
E così, come per magia, piazza Madonnina era il Maracanà e i giardini di via Italia diventavano San Siro. Il Super Santos non era solo un pallone, in quel tempo, era il “compagno” di giochi più caro e prezioso, la nostra felicità assoluta. Iniziavamo, usciti da scuola, ad “accarezzarlo” a casa, per riprenderlo poi subito dopo pranzo e lasciarlo solo al tramonto del sole. Quella sfera “sacra” di colore arancione con strisce nere e scritta gialla, costava 500 lire, ma per noi aveva un valore immenso, incalcolabile; quando, malauguratamente, si bucava ci sembrava di vivere un trauma esistenziale. Se finiva su di un balcone si tirava a sorte per decidere chi doveva citofonare o bussare alla porta della signora pregandola per farselo ridare sano e salvo. A volte andava bene e ringraziavamo felici, a volte invece il pallone ci veniva sì restituito, ma bucato dal coltello di signore arrabbiatissime, e così anche noi ricevevamo una coltellata al cuore. Se si incastrava tra i rami di un albero si cadeva nello sconforto e si era disposti a tutto: arrampicate acrobatiche e pericolose comprese, pur di salvarlo. Le “cazziate” infinite per le vetrine rotte da tiri troppo forti, le auto che frenavano di colpo perché si sapeva che “appriess’ o pallone fuie o guaglione”; le pietre a fare da pali delle porte, la conta per decidere chi giocava portiere. Le partite che duravano mezza giornata e terminavano malvolentieri con l’immancabile “chi segna il prossimo gol vince la partita”, anche se si era sul dieci a zero per gli avversari.
Quando passo da via Garibaldi, nei due cortili tra i tre palazzi costruiti da Carmine De Bartolomeis nei primi anni sessanta, mi capita di rivedermi bambino insieme a Valerio, Totore, Genesio, Gerardino, Tonino, Lazzaro, Pierino, Rosario, Leonardo, Ninuccio, Massimiliano, mentre, con un Super Santos tra i piedi prendiamo a calci la noia e urliamo felici alla vita.
26 febbraio 2022 – © riproduzione riservata