Male nostrum

[di Ernesto Giacomino]

Ultimo giro, ultima corsa. Residui battiti d’ali d’un’estate che, di certo, non si struggerà per farsi ricordare. L’ennesima, direbbe qualcuno: forse la peggiore, ribatterei io.

Sospinti al mare, noi, più che da voglia di ferie, dalle tinte fosche sprigionate dai notiziari in città: pandemia, guerra, crisi energetica. Le follie scritte e orali dei pavoni in campagna elettorale.

È innegabile come l’umanità stia tirando fuori il peggio di sé, a tutti i livelli: mondiale, nazionale. E locale, ovviamente. Speculazioni da spiaggia sulla pelle dei disperati, aree pubbliche requisite come parcheggi privati, prezzi di bar e ristoranti raddoppiati, un ombrellone al costo d’un salario giornaliero. E questo maledetto, insostituibile gas che pare giustifichi tutto: clima, assegni a vuoto, psoriasi e doppie punte.

È finanziariamente sopravvissuto solo chi ha clienti su cui rivalersi: tutto il resto, la platea eterogenea e sconfinata dei consumatori finali, ha oscillato nel lungo baratro che va dalla rinuncia alla rovina. Sobbalzando, peraltro, nelle medesime buche e sui medesimi dossi che da anni – comodi, statici, impuniti – devastano le strade d’Aversana e Fasanara nel tragitto verso il mare. 

I soprusi, poi. Quelli reali, quelli ipotizzati, quelli sapientemente messi in opera ondeggiando tra le pieghe delle leggi. A passeggiare sulla battigia da un punto all’altro del litorale battipagliese montava uno sconforto abissale: poche manciate di spiaggia libera tra un continuum di lidi privati con annesse dipendenze. Cliché da costa romagnola, nevvero: rotonda, ombrelloni ufficiali, e a seguire un separé di telo con attigua spiaggia attrezzata di uguale proprietà ma senza insegne ufficiali. Come dire: una sottomarca, il discount dei vacanzieri, il “vorrei ma non posso” per i meno abbienti. Che a contestarla, questa roba qua, subito escono norme, deroghe e regolamenti a legittimare: come se il fatto fosse meramente tecnico e non etico, di metodo e non di merito. Sei chilometri di lidi addossati l’un l’altro, checché ne dicano legislatori e controllori, restano uno scempio, un’offesa alla natura, un’appropriazione indebita del diritto naturale e inviolabile a godersi un bene di tutti. 

Che poi, oddio: un bene. Le poche aree non ad appannaggio dei privati sono comunque micro-discariche a cielo aperto, coacervi d’incuria e sporcizia che vanificano puntualmente il ciclico, encomiabile lavoro di pulizia dei volontari. E il mare, al solito, come ogni estate dà e toglie schiuma e immondizia a discrezione sua e di chi lo analizza: escherichia coli ieri, idrocarburi oggi, incontaminatezza domani. Insomma, rispetto a igiene e balneabilità stiamo come stavamo, i depuratori saranno pure un fiore all’occhiello della moderna tecnologia mondiale ma se l’acqua resta sporca la teoria conta poco. O magari – ancora peggio – conta nella misura in cui ripulisce coscienza e avidità di chi lucra ammassando corpi sulla sabbia al ritmo latino-americano di quel trittico Swing/Colita/Bomba che frantuma pendenti da oltre un trentennio.

Perché poi – al di là delle opportunità – ci sarebbe da parlare anche di qualità: che sappiatelo, passasse in spiaggia un caraibico vero e vedesse questi zompi di gruppo, di sicuro correrebbe in ambasciata a chiedere d’essere espulso. 

3 settembre 2022 – © riproduzione riservata

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