Bullo e impossibile
[di Ernesto Giacomino]
Cosicché niente, il fenomeno è arrivato anche qua. Ché mentre pareva la solita solfa stereotipizzata della periferia al degrado, dell’adolescenza complicata per strada, dell’assenza delle istituzioni e delle occasioni d’aggregazione tipiche delle zone suburbane delle metropoli, s’è invece scoperto che può accadere anche in una realtà medio-piccola e a trazione sostanzialmente provincialistica come Battipaglia.
Le baby-gang, intendo. Questi torsoli di ragazzotti quasi sempre minorenni, oscillanti dai tredici ai sedici anni, che con una mano impugnano il controller della playstation e con l’altra vanno facendo gli apprendisti guappi sfoderando mazze e coltelli. Minacciano, rapinano, dicono. Prendono portafogli e cellulari; e, se reagisci, picchiano in branco. Lo fanno prevalentemente con i loro coetanei, ma capita anche gente un po’ più grande che magari evita reazioni per non rischiare l’incolumità dei familiari con cui è in giro.
Tant’è che pare che la sindaca abbia chiesto rinforzi al Prefetto e nelle serate dei prossimi week end ci saranno agenti in divisa a pattugliare movida e centro cittadino. Cioè, non so se s’è capito: un pugno di quasi-lattanti mette a rischio il quieto vivere d’una intera città, tanto da richiedere un incremento della sicurezza per le strade. Dove non è riuscita, negli anni, la camorra che sparava, la droga che annientava o l’esplosivo del racket che sventrava, riesce oggi una dozzina di aspiranti galeotti con l’hobby dell’estorsione dopo i compiti di scuola.
Ragazzi difficili, dicono alcuni che hanno avuto la sventura o di incrociarli o di sentirselo raccontare direttamente dai malcapitati. Famiglia disfunzionali alle spalle, storie d’emarginazione, latitanza di ascolto. Quel fatto che la mela non cade lontano dall’albero, e allora – a grattare per bene sulla patina di perbenismo e segni di croce che impregna la facciata della vita sociale – ti sbuca agli occhi tutt’un substrato di disagio e valori sbiellati appresi e metabolizzati già a tavola, al pranzo domenicale: l’elogio della prepotenza, l’emulazione del gregge, l’apologia della discriminazione.
E poi, chiaramente, noi. Noi adulti, dico. Noi che di fronte a questi fenomeni cadiamo dalle nuvole, storciamo il naso, ci proclamiamo estranei e innocenti. Come non fossero i nostri figli, quelli. Come non fosse la generazione che stiamo crescendo, forgiando, plasmando a immagine e somiglianza di tutte le storture e le ambiguità con cui abbiamo imbastito il millennio. Un sedicenne che rischia il riformatorio pur di ottenere quel tal cellulare che va tanto di moda ha una scala dei bisogni artefatta, deforme, surreale. Che non nasce dal nulla, però: il delinquente abituale è spesso un disperato che non ha mezzi o capacità per sostentarsi diversamente; un ragazzo che regolarmente mangia e si veste è invece l’esasperazione d’una mentalità, una corrente, una tendenza ben definita. Spesso, l’appendice deformata d’un genitore-pensiero sulla necessità di conquista dell’effimero, con le buone o le cattive: il conto in rosso ma la fuoriserie in cortile, il viaggio a Cuba ma la casa pignorata. Il leit motiv è quello classico dei film, solo un po’ storpiato: tutto ciò che non hai, figlio mio, un giorno sarà tuo.
15 ottobre 2022 – © riproduzione riservata