Pianta rei

[di Ernesto Giacomino]

Per fare un albero ci vuole un fiore, cantava Sergio Endrigo. Invece per farlo fuori, un albero, ci vuole un fior fiore. D’esperti, intendo: ché s’è tutti botanici, agronomi, vivaisti e cultori vari, là a Palazzo e tifoserie annesse, quando qualcuno accusa l’amministrazione di sottrarci il verde cittadino.

Che poi, piccola premessa: è diventato difficilissimo polemizzarci, coi politici moderni. Non li cogli mai in castagna, hanno una risposta già pronta per qualsiasi eccezione gli si muova, pur su un problema appena sorto. Tu t’aspetti di vederli nicchiare, prendere tempo, macché: con tutt’una flemma studiata al millesimo si mettono lì a svelarti che sei in torto perché il tal atto, la tal delibera, il tal regolamento regionale, la tal competenza d’un altro Ente impediscono, indeboliscono, sfavoriscono questo provvedimento o quell’altro. E se l’argomento è particolarmente tecnico arriva subito a supporto lo specialista in materia: il cimiterologo, il depuratorologo, il fognaturologo, il vigilurbanologo. Per cui niente, ti trovi spiazzato, manco stai là a controllare se dicano cose reali o stiano recitando a memoria il manuale d’istruzioni d’una radiosveglia Casio. Perché, a farti venire il dubbio d’essere – piuttosto che un cittadino scrupoloso – un arrogante polemico e incompetente, già ti bastano cotanta prontezza e padronanza dialettica.

Niente da fare, insomma: l’evoluzione dell’uomo si trascina quella delle sue azioni. Una volta la politica era un dovere, poi s’è tramutata in passione, poi man mano è divenuta un mestiere. E alla fine, com’è accaduto per roba fino a ieri stinta e schematica come le conferenze stampa degli allenatori o le ospitate dei virologi in televisione, s’è trasformata in arte.

E quindi gli alberi, dicevo. Niente, ogni tanto ne sparisce qualcuno, oppure il tronco originario – il più delle volte, secolare – d’improvviso lascia il posto a un moncone d’una ventina di centimetri, che t’aspetti che da un momento all’altro venga in strada un dentista gigante a incapsularlo. Alle volte succede con motivazioni ufficiali (veri e propri bollettini medici che Dr. House scansati: “eh, un aneurisma al ramo destro, l’abbiamo pure trattato con l’eparina ma ci s’è scatenata la risposta immunitaria”); molto più spesso lasciando spazio alla fantasia dei cittadini, con allarmismi a scaglione che vanno dal “tolgono il verde per metterci il cemento” (che ok, può valere se ti radono al suolo un bosco, ma edificare un condominio al posto d’un singolo albero la vedo dura) al più ottimistico e bendisposto “eh, sì, ma ne pianteranno altri in sostituzione”. Che è una cosa, questa qua, che mi fa sempre sorridere: cioè, sradicano platani giganti che facevano l’ombra d’una tenda da circo, e che con un solo ciclo di fotosintesi s’inghiottivano più anidride carbonica di quella sprigionata da una sfilata d’auto d’epoca col motore a lignite, e in cambio mettono dei fuscelli tremolanti d’un metro d’altezza che quando passi ti urlano di salvarli, e la chiamate sostituzione? 

Il fatto è che in realtà, ritornello famoso a parte, la canzone di Sergio Endrigo partiva un po’ più da lontano: per fare un albero, diceva, ci vuole un seme. Quello, non sempre diffusissimo, del buonsenso.

19 novembre 2022 – © riproduzione riservata

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