La donazione
[di Carmine D’Alessio]
«Ma chi te lo fa fare? Pensa a te! Vuoi fare del bene agli altri, ma a te, di bene, chi ne fa?».
A quelle parole, rivoltele da suo fratello, non aveva trovato nulla da ribattere e solo per ostinazione si era avviata in ospedale. Eppure le piaceva quel rito: inforcare la mountain bike e tagliare la città appena desta, lungo una sola strada, lunghissima e dritta, che da Taverna la portava fin quasi a Belvedere, sentendo qua e là l’odore proveniente dai forni e dai caseifici, e dando un’occhiata prima alla stazione in lontananza, piena di pendolari, e dopo poco al Tusciano che mormorava. Il tutto per presentarsi in sala d’attesa alle 8, effettuare la donazione in mezz’ora, riposare dieci minuti e raggiungere alle 9 in punto l’ufficio dove da due anni lavorava come contabile. In effetti, a donazione avvenuta, avrebbe avuto diritto ad un giorno di riposo, ma, appunto, ne avrebbe avuto diritto, se fosse stata regolarmente assunta, cosa che in questi due anni, per un motivo o per un altro, ancora non era accaduta.
Per la verità, aveva saputo da Giovanni, un operaio suo collega che la corteggiava, che nemmeno la ragazza che lei aveva sostituito, era stata messa in regola ed era stata mandata via quando era ormai evidente il suo stato interessante. Per questo quella mattina, le sembrò che la sala fosse più fredda del solito. La confortò lo sguardo di Luigino, il vecchio infermiere, incerto nell’incedere e nell’eloquio, ma preciso nella procedura, piacevole e sempre rassicurante.
«La signurina non ha dormito bene stanotte? Pecché si nu sorridete ‘nu poco, lu sangue nun viene buono».
Le disse sorridendo, vedendola ombrosa come non mai.
– No, signor Luigino, quest’inverno mi butta giù. Spero finisca presto.
Gli rispose girando il volto per nascondere una lacrima.
– E finirà, signurí, comme sono finiti tutti li vierni. Quannu venne lu terremoto dell’ottanta, era vierno e io cu’ muglierema Teresa, incinta de lu mascolo, che all’epoca stemmero a Calabritto, stemmero tutto lo vierno e pure lu vierno aroppo, dint’a li container, cu la neve alta 30 cintimetri, mentre li fitienti si facíano lli ville. Noi stavamo vicino a lu camino, che crolló cu’tutt’o’mur. Ci salvammero pe’miracolo. Disse Luigino, perdendo per un attimo il suo sorriso.
«E non vi arrabbiaste?».
«Sí, ma ci vulívamo bene cu l’ati paisani dint’a’li container comme a nui. Ci aiutavamo uno cu ll’ati: chi stava cu li creature, chi cu li viecchi, che suffriano di reumi, e io che era stato sempre pauriosu di mierici e miericine, mi scuprietti bravo a fare le serenghe e, zappatore che era stato fin’allora, mi venne lu piacere di fare lo’nfirmiere. Feci lu corso per bene e poi pigliai sirvizio».
«Chi vi tirò fuori dalle macerie?».
«Nun s’è mai saputo, chi dice due forastieri, chi dice li suldati, di sicuro nisciuno de lu paise».
La donazione era completata, un timido sole bucava le tende della stanza, mentre lei si godeva i dieci minuti di riposo. La giornata poteva cominciare.
11 marzo 2023 – © riproduzione riservata