La polvere sotto il tappeto
[di Ernesto Giacomino]
Mi sono sempre chiesto come fu davvero bonificata, Battipaglia. Se gli acquitrini su cui s’elevava, due secoli fa, siano stati asciugati, o deviati, o semplicemente ricoperti alla buona. Per dire: una volta un compianto imprenditore locale mi rivelò che nella zona in cui abitava – nei pressi dell’ospedale – all’atto di scavare il terreno per impiantare le fondamenta della sua palazzina trovò, come unico isolante tra superficie e sottosuolo fradicio, un paio di metri di ghiaia. Forse un’esagerazione, forse un’incidentale casualità. Forse gli ingegneri, da quelle parti, per qualche motivo tecnico non ebbero alternative.
In realtà questa riflessione ha poco o niente a che farci, con l’assetto idrogeologico della città. Più che altro, se così fosse, se davvero tutta quest’opera di mega-ristrutturazione di questo palmo strategico di Mezzogiorno si fosse ridotta a ricoprire a pietrisco un’intera palude, la cosa si trascinerebbe l’ombra di una metafora azzeccatissima. Come dire: la trasposizione dall’ambito pratico al DNA di un popolo dell’antica e nobile arte dell’insabbiare. La famosa polvere sotto il tappeto, il vestito buono sul corpo trascurato, la cisterna di profumo sull’olezzo di non lavato.
L’abbiamo fatto con tutto: beghe politiche, abusi edilizi, imprenditoria truffaldina. Con i rifiuti, per dire: per quanti anni, negli avvicendamenti di Palazzo, s’è finto che la discarica sul Castelluccio non esistesse? Era lassù, nascosta, isolata. Dimenticata, no? Quasi come se lo scempio alla vista e i miasmi nel naso te li beccassi solo se eri così temerario e incosciente da avventurartici, in quei posti. Altrimenti niente: a sentirle, le amministrazioni, qua era un mondo meraviglioso, t’affacciavi alla finestra ed era tutto un cinguettio d’uccellini nel cielo terso col sole a picco.
Il mare, poi. Fin dagli anni pre-internet, quando per sapere i fatti istituzionali potevi attingere solo da sporadici manifesti del Comune o trafiletti interni di giornali locali, ad anni o mesi alterni è capitato tranquillamente di tuffarsi in acque talmente inquinate da rischiare la trasmutazione genetica. Perché sì, quand’è il caso i divieti di balneazione s’emanano regolarmente: ma s’è capito che non serve davvero essere così chiari e categorici, nel diffondere le cattive notizie. Per cui: a che scopo minare entusiasmo, serenità e relax dei bagnanti mettendo, che ne so, pure avvisi e cartelli sulle spiagge?
In quest’ottica, allora, chiaro che i preparativi per la festa patronale assumono tutt’altra valenza: sono il nostro ciclico richiamo alla spensieratezza, alla fiducia, all’autoconvinzione dell’assenza di problemi. Il ritorno alla tradizione del non vedere: simbolicamente incarnata nelle luminarie che soccombono a un’illuminazione pubblica sempre più in malora, nelle bancarelle ben piazzate sui tratti d’asfalto macerati dal rincorrersi di lavori e scavi, nella processione che s’ingegna ad aggregare una comunità, di fatto, sempre più divisa in gruppo contrapposti. E, ovviamente, nelle giostre: nell’illusorio rituale del gioco a premi, del salto veloce, dell’acrobazia. Della vista panoramica da cui, in fondo, puoi scorgere anche il bello. E pure se non fosse, va’: mano alla tasca, e c’è sempre un altro giro.
1 luglio 2023 – © riproduzione riservata