Don Ernesto

[di Crescenzo Marino]

«Basterebbe davvero poco» disse il professore Ernesto nel mentre seduto, come ogni mattina ai tavolini di uno dei bar della centralissima piazza Aldo Moro, sorseggiava un caffè con gli amici che, per il puro piacere di sentirlo argomentare, pendevano dalle sue labbra, capace com’era di rendere fruibili i concetti più ostici, le dinamiche più complesse, con una chiarezza espositiva e brillante che gli derivava dalla sua profonda cultura e da una appassionata e appassionante conoscenza della storia e, soprattutto, perché ascoltandolo imparavano sempre qualcosa di nuovo, di bello, di utile e a volte di poetico. 

«Basterebbe che ognuno o anche solo qualcuno dei cinquantamila abitanti di Battipaglia si occupasse, senza se e senza ma, senza dirlo a nessuno e senza aspettarsi nulla in cambio, solo per amore verso la propria terra, con passione, con affetto, con speranza, di una strada, di un angolo, di una piazzetta, di un muro, di un albero, di un marciapiede, di una panchina, di un lampione, di un vicolo, di un’aiuola per farne intima bellezza, un’ occasione di festa, un luogo sacro da visitare frequentemente e custodire amorevolmente. Se ne avessi il potere, carissimi amici miei, assegnerei a ogni studente  battipagliese, come compito per casa, lo studio della storia civile, politica e religiosa della città, della sua toponomastica, delle sue tradizioni; imporrei la conoscenza della biografia degli uomini che con la loro intelligenza, con i loro sacrifici e con il duro lavoro hanno contribuito nel tempo alla crescita economica, culturale e sociale della capitale della piana del Sele, con un esame finale propedeutico all’ottenimento del “titolo” di battipagliese doc. A ogni pensionato darei l’incarico di raccontare in pubblico almeno una cosa buona fatta per la propria città e quello che la città ha fatto per loro. Ordinerei l’eliminazione della solitudine e obbligherei tutti ad inginocchiarsi davanti a chi soffre per poi tendergli la mano e il cuore. Pianterei cinquantamila nuovi alberi, uno in regalo per ciascuno, da coltivare, da proteggere, da abbracciare. E a ognuno affiderei un pezzetto del cielo sopra di noi, manto misterioso in continua mutazione tra giorno e notte, con le sue nubi, i pianeti e le stelle, perché ci appartiene, anch’esso, fino a farci male. Commissionerei poi a uno scultore monumenti a eterna memoria delle tabacchine, dei casari e degli agricoltori, eroi inconsapevoli e immortali della nostra comunità». 

Era un fiume in piena don Ernesto,  professore di storia e filosofia in pensione, poeta raffinato e sensibile, dalla chioma folta e candida, con l’immancabile pipa tra le mani, l’abbigliamento impeccabile e lo stile inconfondibile da gentleman di campagna dall’eleganza innata. Le sue parole una semina feconda e profonda, dall’inevitabile prodigiosa raccolta di bene per la sua gente.

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