1998 | di Lucio Spampinato

Non ricordo più come si decise quell’anno di partire per l’Umbria. Ancor meno molti compagni si spiegarono come conciliammo la militanza nella sinistra antagonista con una vacanza in monastero. Comunque sia, per una decina di giorni, la politica avrebbe fatto a meno di noi tre. Sulla dolce collina di Assisi c’era in realtà un luogo quasi magico. A metà fra un’azienda agricola, una vecchia fattoria e, sì, diciamo pure un monastero. Si può dire che San Masseo fu un luogo dell’anima per generazioni di giovani di ogni parte del mondo, fra gli anni ’80 e ’90 del ventesimo secolo. 

Arrivammo nello splendore di luglio e la sera conoscemmo i due carismatici animatori del convento. Paul e Fritz, uno americano e l’altro austriaco, erano le guide fisiche e spirituali della piccola comunità francescana. Frati, funamboli, predicatori, pellegrini, dolci ribelli: erano capaci di comunicare l’unico messaggio, possibile e plausibile, di fratellanza come discepoli pristini dell’Apostolo Zero. Dire in breve cosa fu quell’esperienza si può solo per enumerazione. La mattina iniziava con sveglie musicali (chitarre, violini, pentole e coperchi) rigorosamente alle sei; chi voleva partiva in un percorso fra i campi per la messa a San Damiano, chi restava preparava la colazione per tutti. Il lavoro diurno era in campagna, in cucina, al forno a panificare o alla corvée delle pulizie. Poi il pranzo all’aperto, le discussioni pomeridiane in biblioteca divisi in gruppi di lavoro, un po’ di libera uscita, preparazione della cena, messa vespertina all’aperto o nella cripta, cena, dormitorio, grande silenzio. Nella settimana che ci spettava, il giovedì fu praticato il digiuno a base di tè, qualche biscotto e acqua per l’intera giornata mentre il venerdì fu giorno di deserto che prevedeva di rimanere soli senza parlare (io raggiunsi l’Eremo delle Carceri). E fu tutto un immergersi in un paesaggio capace per me di richiamare dal profondo memorie senza volto dall’origine della vita, perché in quei luoghi ero stato portato da bambino ma di essi mi restavano nel ricordo solo immagini sfocate.

Un giorno, il mio sguardo incrociò quello di Marina Boban e, senza che ce ne accorgessimo, ci ritrovammo a chiacchierare girovagando per i sentieri intorno alla fattoria. Lei aveva studiato la nostra lingua alla facoltà di Geografia di Zagabria e quindi ci capivamo. Veniva da Vukovar, in Slavonia, Croazia, e mi raccontò della guerra e degli eccidi delle truppe della JNA fedeli a Belgrado. I suoi genitori e suo fratello si rifugiarono allora nella mansarda che da studentessa aveva in affitto a Zagabria, lasciandosi dietro la casa, il giardino, le arnie e un lavoro da pasticciere del padre. Il suo volto e il suo sorriso erano slavi, mitteleuropei, austroungarici ma l’incarnato olivastro sembrava portarsi dentro, nel profondo del sangue, ascendenze ottomane. Volarono quei giorni, l’accompagnai ad Ancona a prendere la nave del ritorno per Zara. Ci promettemmo amicizia a vita ma, come spesso capita, dal sempre al mai più ci volle un attimo. Ma ancora oggi, ogni volta che torno in quei posti, non posso far a meno di ripensare a M. B. e a quella dimensione speciale, a quell’intenso tumulto di sentimenti, emblema di una vita ideale, così perfetta forse proprio perché mai realizzata.

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