Mani in alto
di Valeria Francese
Questo quartiere non è più sicuro. E ogni giorno ci sono furti nelle abitazioni. Ho provato molte volte a cambiare casa, persino pianeta. Ma qualche genio tra di voi si è inventato la storia che questo sia il migliore dei mondi possibili. E cosi sono costretto a restare, portandomi dietro la casa come un mollusco che si illude di una qualche permanenza. Eccola la ladra di turno, stasera è arrivata sul mio pianerottolo, pronta a derubarmi. È incapsulata nel mio spioncino, miniatura pallida dentro una piccola teca. Non prova a forzare la porta, credo che lo scasso non abbia a che fare con le sue mani sottili, da predatore piccolo che non potrebbe cacciare che lucciole. La riconosco, mi aveva interpellato qualche giorno fa, leggera e dolorosa, come un colibrì dalla struttura fragile. Vuole sapere perché non leggo le sue lettere, perché quando bussa alla mia porta con quella fame d’aria con cui imbarca il vuoto, io non le apra, perché finga che non sia mai esistita, tornata dal grande fegato, quello che ci vuole per guardarsi frammento.
“Apri”. Un imperativo, il suo, rancido. Mi stringo dentro i cigolati arrugginiti della mia porta blindata, con il mio pancione di orpelli, l’arredo intontito dalla polvere, io che invece vorrei farmi un vestito di vento e un cappello di nuvola.
“Apri”, ripete nello spioncino. “Fatti rubare in casa. Mi costringerai a battere con la testa contro il muro, come fanno tutti quando non rispondi mai”. Poi, prende la sua testa fra le mani come un grosso vaso di fiori e la lancia contro la porta. Il rumore è quello di un universale divieto di accesso. La ladra piccolissima, addolorata, riprende a parlare, con la testa infiorata, o come un vaso senza più fiori.
“Ora siamo rottami, entrambi.”
“Torna a casa tua”, le grido coprendomi gli occhi con le mani.
“Va bene”, annuncia quasi sconfitta. “Non ti ruberò finché non mi aprirai.”
“Non possiedo niente, vattene.”
“Hai una cosa mostruosa, invece, un solo oggetto che è nero come un buco. Quello cerco, quello devo portarti via.
“Chiamerò i carabinieri. Non farmelo ripetere.”
Accade poi, che lei smetta di parlare. Mi spingo con forza dentro lo spioncino e la vedo, quella creatura impossibile da catalogare, addormentarsi in posizione fetale, sul tappeto dove c’è scritto Welcome. C’è bisogno di riflettere. Mi allontano e mi rannicchio in poltrona, angosciato e tremante dal freddo per una coperta che non è abbastanza lunga. Mi lascia esposte troppe parti di me che prendono a gelare nell’immediato istante in cui tiro da un lato la coperta. Non ho idea di cosa voglia quella benedetta ragazza, ma ho un certo talento nell’arte degli indizi: dunque lei ha detto che ciò che cerca è un oggetto nero come un buco. Quindi è vuoto, ed è inutile. Se penso alla mia vecchia collezione di cestinati, potrebbe venirmi qualche idea. Allora decido per una rivoluzione, mi alzo, sbaraglio il corridoio e le vecchie stanze con la coperta corta ormai avvolta sulle spalle, mi servono idee per trovare quello che lei vuole. Arrivo fino al fondo incrostato, dove ritrovo un pesce in apnea e un uccello con le mani legate. Devo fare ordine con della luce, c’è un andirivieni di occhi a galla di zolle. Sono sotto esame, la commissione valuta la mia efficacia e la mia misericordia. Mi imbatto allora in un povero cristo che ha fame, ricordo di avere tozzi di pane nelle tasche dei pantaloni e glieli lancio, lui li afferra, tutto occhi e qualche dente storto. Mi sento buono. Non c’è lavoro, è vero, però possiamo costruire delle multinazionali nella terra dei perduti. I corpi crivellati di cancrene sono ammassati in un soppalco, domani chiamo la ditta sgomberi, va bene, sono onnipotente. C’è persino un mare, sotto la finestra, con dei barconi disgraziati come balene arenate. La questione delle precedenze, arriva alle mie spalle: ci si accoltella per un parcheggio. Sono esausto, smerigliano virus sul soffitto e coltelli taglia gole. Mentre cerco un buco nero, il mio buco nero, dentro una casa degli orrori. Non lo trovo quello che non so che sia. Scopro intanto dentro un cassetto un campo di marionette spinti dai fili del potere, i dittatori e i democratici sono questi fili. Mi gira la testa, rovescio di me ogni cellula.
“Mani in alto, sei in arresto!”
Finalmente sono venuti a salvarmi! Una voce che arriva dalle scale mi fa precipitare di nuovo verso la porta.
“La ladra è lì! Grazie, sono salvo! Siete arrivati appena in tempo! Grazie a Dio, qualcuno vi ha chiamati!”
Ma quando apro la porta, lei è di nuovo lì, ora non più racchiusa nella teca dello spioncino ma dinanzi a me. E mi sembra alta, altissima.
“Li ho chiamati io, sono qui per te, non per me. Io sono fuori dalla tua proprietà. Non ho commesso alcun reato. Sei tu che ti sei spaventato. Prenderanno te, piuttosto, sei tu il ladro che ci ha rubato lo spazio. Sei tu, che ci hai creato, tu ci hai voluto e poi ci hai occupato con l’ansia di Te. Certo, potresti non farti vedere e scappare come sempre. Oppure farti prendere. Oppure darmi ciò che cerco, senza troppe storie”.
“Parla, prima che arrivino! Io ho paura!”
“Non dovrebbe averne uno come Te.”
“Finiamola qua, stanno venendo per arrestarmi.”
“Mi prometti che mi scriverai dal carcere? Sono l’unica che può tirarti fuori. Ma voglio una lettera al giorno.”
“Se mi aiuti, ti parlerò ogni giorno, verrai ad abitare con me.”
Lei sorride soddisfatta. “Era questo l’oggetto che volevi sottrarmi?”
“Il tuo silenzio omissivo, Dio buono. Ne hai fatti di guai con il tuo mutismo selettivo.”
Sono stato arrestato il giorno di Natale. C’è qualcosa di tenero nella paura umana. Ammetto che, mentre le delusioni mi portano via in manette, per reati di omissione di soccorso, violazione della privacy, furto di identità umana, occupazione indebita dello spazio di vivibilità, un certo sollievo di non avere più una coperta troppo corta mi fa sentire il cuore leggero. Che abbia qualcuno con cui parlare, pure.
18 gennaio 2025 – © riproduzione riservata