Diletto e castigo

[di Ernesto Giacomino]

Infiltrazioni, concussioni e guappo-politica. Le cronache recenti e meno recenti della gestione della cosa pubblica, qui a Battipaglia, parlano di un sistema di governo cittadino malato e malandato, oltre che radicato da anni nelle mura del Palazzo. Cose che, nella migliore delle ipotesi, ignoravamo. Nella peggiore, tolleravamo.
Quando si tocca il fondo, dice il saggio, non si può che risalire. Lo sfigato invece ci aggiunge l’alternativa: nossignori, si può anche scavare.
Quello che ci si aspettava, dopo questa apparente ramazzata di legalità, era che quantomeno si trovasse un fronte comune di intesa. Che si dicesse: ecco qua, s’è fatto un macello indicibile, ora rimbocchiamoci le maniche e sgomberiamo le macerie. Ognuno con le sue idee politiche, e vabbe’. Ma col fine comune di ricostruire.
E invece, macché. Nemmeno sappiamo esattamente se e quando ci faranno rivotare democraticamente e già s’è attivata una macchina del fango che nemmeno nelle paludi dell’Amazzonia. Basta che aleggi il nome di un qualunque candidato a sindaco, fosse pure inventato, che nel giro di qualche ora ne esce fuori l’esatta nemesi: l’anti-candidato urlante e agguerrito che ne contesta intenzioni e programma. Prima ancora che li abbia esternati, è ovvio.
Essenzialmente, la questione, è legata al principio. Un principio malato, egoistico, possessivo. È un po’ l’atteggiamento di quello che chiama i vigili se ti vede sostare davanti al passo carrabile di qualcun altro. Non potrebbe fregargliene di meno, ma guai a togliergli il gusto di infastidirti fingendo di appellarsi a un senso civico che non ha.
Battipaglia è quel rudere brutto e fatiscente a proprietà indivisa, valore di mercato zero e di realizzo sottozero, per il quale ciascun erede si scaglia a sputi e morsi pur di non lasciarne una fettina all’altro.
E dietro questo, dietro la saccenza e la supponenza dei futuri politici da social network, tutti kappa e punti esclamativi e patchwork di videoclippini attinti a caso dalla rete, vedi ghignare loro. La sottoguardia, i vecchi volponi. Le solite facce note, stranote, col groppone curvo dalle colpe di decenni d’intrallazzi e malgoverno, che su queste inimicizie rionali e condominiali, su queste battaglie di principio sfamate dal malcostume dello schiattiglio, ci erigeranno la loro, di campagna elettorale.
Perché tanto, non ci crederete, ma qui da noi ci si può riciclare all’infinito. Muovendo fili vecchi con facce nuove. Spessore e caratura dei personaggi da candidare non hanno più nemmeno bisogno della valutazione del partito: è un concetto che la nouvelle politique non mette in menu. Basta una lista civica, no? Due, tre. Mille. L’ideale per adottare ideologie trasversali senza rendere conto a nessuno: socialista oggi e liberista domani, a seconda dei bisogni primari della mia tasca e della mia faccia. Chi verrà mai a impedirmelo?
Per cui, niente. Nonostante le batoste restiamo – ostinati e coerenti – tutte teste da fondere e riassemblare in forme nuove: c’è da creare, modellare, far asciugare.
E non so se sperare che ce ne diano il tempo o se, piuttosto, che non ce ne diano per niente. Perché, dice il solito saggio, ciò che non riesci a cambiare, alla lunga, può solo peggiorare.

31 luglio 2015 – © Riproduzione riservata
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