Sempre peggio che lavorare
[di Ernesto Giacomino]
La riflessione a latere che m’è sovvenuta su quest’ultima cavalcata elettorale è perché ci sia tanta gente che ieri disquisiva di spritz, Farmville e french sfumato e oggi di colpo vuole fare politica.
Cosicché, approfondendo una mia personale teoria socio-antropologica – già applicata con successo allo studio “Dinamiche e fenomenologia del sub a palla nell’Audi quando va per vicoli” – mi sono venuti fuori quattro profili di candidato-tipo a cui si può ricondurre l’universalità degli aspiranti consiglieri comunali osservati nei mesi scorsi.
Il primo: il candidato “a sua insaputa”.
Il famoso riempilista, cui l’amico del cognato della zia del padre, dopo un pranzo con vino abbondante, ha chiesto di “firmare qua e qua”. S’è accorto di concorrere per lo scranno solo quando ha letto il suo nome sui manifesti con le liste e ha realizzato che non erano gli scrutini della maturità (presa nel ’76, peraltro). Da quel momento ha utilizzato le ultime ventiquattr’ore disponibili per mettersi in bisaccia almeno una decina di voti, ché a risultare ultimi si perde comunque il saluto pure di moglie e figli.
Il secondo: il candidato “faciteme campa’”. Quello che ha rifiutato qualunque posto di lavoro con l’alibi della laurea in socio/cultural/psicopodologia applicata (110 e lode, bacio accademico e pomiciata col bidello) e, che cavolo, se non insegno io chi altri può permetterselo, e quindi sperava che quei cinque-seicento euro al mese di gettoni di presenza tamponassero la momentanea, infelice condizione delle sue finanze personali.
Il terzo, il più ricorrente: quello del “chi amministra ammenestra”. Ha passato l’intera campagna elettorale a promettere di tutto: il posto alla Nasa al genero di Tizio, la sanatoria per la palafitta sul canale d’irrigazione di Caio, più figurine Panini per tutti e sconfitta in tre anni dell’alluce valgo. Anelava essenzialmente al potericchio, all’illusione di una posizione (bassa, diciamocelo) di privilegio, al “bongiornassignuria” del vecchietto speranzoso in un favore, al “lei non sa chi sono io” da sbandierare al vigile ogniqualvolta la madre frantumava in retromarcia una vetrina del corso.
Quarto profilo, poi. L’ultimo: quello che s’è candidato davvero. Il politico dentro, nel senso più umano nel termine: quello che prende l’iniziativa tutto l’anno e per tutti gli anni, che va a lamentarsi a Palazzo se le strade sono sporche o i lampioni rotti, che chiede udienza al Commissario per parlargli di un barbone del quartiere o di una famiglia che non arriva alla fine del mese. Quello che raccoglie la carta gettata da un altro, che con l’auto si ferma prima di qualunque striscia pedonale, che è comunque fiero dei figli se sono educati e leali piuttosto che capiclasse o campioni di nuoto. Quello che la politica, sì, è esattamente quello: la polis, quindi la città, quindi la comunità. Che è anche farsi i fatti dei vicini, del salumiere, delle maestre, intuire i disagi nascosti, le denunce soffocate, le cose migliorabili e quelle condannabili.
Ecco, ora io non so quanti se ne siano candidati, di questo profilo qua. Ma spero (in questa millantata botta di “nuovo”, che non si sa se avanza oggi o è avanzato da ieri) che almeno siano stati tutti eletti.