Non aprite quella sporta
[di Ernesto Giacomino]
Circa quattro euro l’ora, per una media di tredici ore al giorno. Il travaglio inumano di riempire, sollevare, trasportare a oltranza cassettini traboccanti da trenta chili l’uno. La sorveglianza di “motivatori” inferociti che urlano e bestemmiano tra i macchinari per impedire pause, chiacchiere, minzioni fuori orario.
Sono le nuove galee, le antiche navi condotte dai rematori schiavi. I nuovi campi di cotone dell’America secessionista. I famosi “frigoriferi”, insomma: capannoni assemblati alla bell’e meglio per il confezionamento di frutta e ortaggi, disseminati in numero oscillante (nel senso che passano fulmineamente da abbandonati a operativi, e viceversa) nell’ampio braccio di campagna semicostiera che va da Pontecagnano a Capaccio. Roba di “esserrelle” semianonime gestite da prestanomi, gente di altrove, caporali che pattugliano le provinciali imbottendo i furgoni di chiunque sia in bilico tra sopravvivenza e cappio al collo. Nemmeno mille euro al mese tirandola al massimo dei massimi, poche ore di sonno e un paio di panini infilati tra un turno e l’altro.
Manca la frusta, ma degnamente suppliscono le minacce e le mortificazioni plateali. O, non di rado, le visite “a sorpresa” dei principali.
Arrivano col tramestio dei suv sul selciato, freschi di barbiere, l’occhio fisso sull’orologio costoso a dire che non hanno tempo da perdere. Girano diffidenti tra gli operai, lo sguardo rabbioso su una susina scartata male o un melone buttato di troppo. E s’infuriano con quelli – parecchi – che non capiscono perfettamente cosa dicono. Perché il grosso della manodopera, manco a dirlo, qui è rappresentato da immigrati. Marcantoni subsahariani, magrebini filiformi, donnone dell’est sottratte alla carriera di lanciatrici del peso.
No: non rubano il lavoro a nessuno, né fanno quello che “gli italiani non vogliono più fare”. Semplicemente, “durano di più”: per l’atavica abitudine a certi stenti, per una propensione strutturale alla fatica, per le minori esigenze economiche. Perché dormire tra i topi, in rustici pericolanti, e mantenere le famiglie a distanza, mandando vaglia in paesi in cui anche un solo euro è più della paga giornaliera di un operaio, abbassa di parecchio la soglia di sussistenza e le pretese di un salario dignitoso.
Questo mentre nell’altro mondo, quello perfetto, esistono flotte di ispettori del lavoro sguinzagliati per strada a controllare l’autenticità del marchio Cee sulle scarpe dei tassisti, o il rispetto dei decibel assorbiti dalle cuffie dei giardinieri.
E dire che una volta, a Battipaglia, l’agricoltura era in mano ai signori. Famiglie oneste e generose il cui prestigio riecheggiava in un’Italia intera. Imprenditori che in piena ricostruzione sono stati in prima linea nel ridare lustro e benessere a questa città; a cui abbiamo dedicato piazze, strade, biografie nella letteratura internazionale. Perché esssere alle loro dipendenze era un vanto, oltre che la garanzia di una buona paga e di un’aspettativa di vita assolutamente decorosa.
Oggi, assenti loro, ci siamo persi anche in questo. Non paghi d’esserci disossati d’ingordigia e incompetenza, vilipendiamo la nostra stessa carogna. Dandola, senza scrupoli, in pasto agli sciacalli.