In vinile veritas

[di Ernesto Giacomino]

“Tempi duri”. Era il nome di una vecchia band di Cristiano De André, che sfornava brutte imitazioni dei Dire Straits come per sottolineare questo suo conflitto stilistico e generazionale col padre poeta (da cui, però, accettava comunque i milioni per incidere i dischi). E “Tempi duri” (potere dell’inventiva sfrenata, no?) era anche il titolo dell’unico singolo che qualcuno osò, per un breve periodo, far passare in radio. Insomma: roba mordi e fuggi, meteore un po’ più rumorose delle altre solo per il cognome altisonante scritto in copertina.
E però c’era una strofa, in quella canzone, che al battipagliese di oggi suonerebbe comunque di un’attualità sconcertante: “quanti anni indietro ho cominciato a sbagliare, o tra quanti giorni potrò ricominciare”. L’escrescenza, insomma, del dibattito politico locale fin da quando s’è insediata quest’amministrazione: il guano che ci insidia oggi, l’incertezza nel pianificare un domani, per gli errori irrimediabili “di ieri”. Gira che ti rigira, insomma, il problema va sempre a imbucarsi nell’inspiegabile necessità che ci sia un’origine estranea, in un ciclico e infruttuoso viaggio nel tempo per andare a scovare (a che pro?) l’ultimo che uscendo abbia lasciato la città in ordine e lo zerbino alla porta.
Sia chiaro: riflessione fatta con tutta la neutralità del caso, dando per scontato che esistano margini di condivisibilità del pensiero tanto degli oppositori che dei sostenitori; ma va pure ammesso che, sotto l’egida sospinta del “noi non c’eravamo”, mai come ora l’armata di Palazzo ha finito per trovarsi accerchiata da un pot-pourri d’emergenze che neanche durante un allagamento di condominio: il sito di compostaggio, i debiti fuori bilancio, il popolo in ebollizione, i picchi fratricidi in Consiglio. Tra chi spinge e chi tira, insomma, una macchina che resta sostanzialmente ferma lì dove ci ha salutati la batteria, e neanche un elettrauto abbordabile nei dintorni.
Perché poi è qui, in questi frangenti, che lampeggia forte il segnale di pericolo. Nel caos sul da farsi, tra chi sostituirebbe l’intero motore e chi andrebbe a piedi fino a destinazione, tra meccanici improvvisati e profani sentenzianti, finisce che il pallino della situazione lo prenda in mano semplicemente chi, tra silenzi, scenate e borbotti, urla di più.
Il problema è che le urla sono ottime per farsi sentire (e non è poco, ci mancherebbe); ma sono solo un passo, dei chilometri necessari per avere un qualunque indizio di risultato. Perché, ad esempio, far debordare dalle mura comunali – volutamente o meno – questioni istituzionali complesse, e affidarle a umori e dissapori del popolo scontento, può essere espressione di trasparenza e coinvolgimento come imprudente abbassamento del ponte levatoio a favore di chiunque. Ché ci vuole poco, affinché un qualunque alone d’incompiutezza diventi, nelle traduzioni non sempre fedeli dei mediatori tra rappresentanti e rappresentati, una condanna per inefficienza.
“Tempi duri”, oggi. Domani, chissà, ne avremo di migliori. L’augurio, semplicemente, è che nasca una nuova ambizione: quella di poter dire, un domani, non “per colpa”, bensì “grazie” a chi c’era prima di noi.

4 novembre 2017 – © Riproduzione riservata
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