Sudnormali

[di Ernesto Giacomino]

Parecchi anni fa, persi su una panchina in piazza, nell’ozio più brado e colposo apparecchiabile in una sera d’inverno, io e qualche vecchio amico ci ritrovammo a far notte ipotizzando una sorta di “museo simbolico contemporaneo” di Battipaglia: o meglio, una teoria di figure emblematiche che, ove esposte, meglio avrebbero rappresentato il pezzo di storia sociale che noi tre-quattro imberbi avevamo condiviso dall’infanzia a quel giorno. E, al di là delle risate e idiozie che ne seguirono, ci rendemmo conto che, spesso, più ancora che oggetti e avvenimenti, ciò su cui converge la memoria comune di una città è il ricordo di taluni personaggi, per così dire, “atipici”, che hanno attraversato pezzi di vita dei suoi abitanti.
Nel nostro museo immaginario, allora, presero rapidamente posto la “bisazza” del barbone centenario, il laringofono di quello che s’era bruciato gola e sogni nella sambuca, la bicicletta sgangherata dell’eterno figlio dei fiori; il cane fedele e rassegnato della rissosa urlatrice dagli occhiali spessi.
Personalità eccentriche, caratteri difficili, ritrovatisi così vuoi per danni da vizi cronici, vuoi per traumi o delusioni amorose, vuoi per vere patologie cliniche. Conosciuti da tutti per quello che facevano, ma pressoché sconosciuti per ciò che erano.
In realtà vale per quelli di ieri come per quelli di oggi: di tutte le persone “eccentriche” che quotidianamente, da anni o per anni, incontriamo o abbiamo incontrato ciclicamente per le strade che frequentiamo, non sappiamo quasi mai nulla. A prescindere, però, di taluni giudichiamo le famiglie per averli lasciati andare; o lodiamo quelle di altri per non averlo fatto.
Non abbiamo idea di cosa ci sia alla base del loro disagio, eppure lasciamo che la vox populi se lo inventi per noi e ce lo inculchi col passaparola. Un incrocio di mezze verità, leggende metropolitane, racconti da trattoria. Che cosa aveva realmente vissuto, quello che per l’intera giornata trotterellava spazzolandosi i pantaloni? E l’altro che girava schermandosi la testa con un foglio di cartone? Qual è stato il giorno, l’evento, l’attimo per cui i suoi pensieri hanno cominciato a sfilacciarsi sotto l’afa del suo sole immaginario? E con un interessamento più invadente di un vicino, del parroco, di un amico di famiglia; con un avvicinamento della comunità diverso dal semplice sfottò, si sarebbero in qualche modo potuti guarire, salvare, integrare?
Ecco, io e quei miei amici non avremmo potuto tirarlo su, quel museo immaginario. Perché dietro quei simboli che avremmo voluto metterci non ci sarebbe stata sostanza. Non ci sarebbe stata conoscenza. Non ci sarebbe stato il fregio di un senso di appartenenza che vuoi o non vuoi, come tutti i cittadini del mondo, quando scientemente e quando inconsciamente, ci rendiamo conto di non possedere mai del tutto.
E forse è proprio lì che realizzi, alla fine, che non c’era bisogno dei recenti flussi migratori, per tirare fuori la bollicina di separatismo, cinismo e indifferenza che c’è in ognuno di noi. La disgregazione, la barriera tra i “noi” e i “loro”, la stigmatizzazione della diversità – per questa dannazione di doverci trascinare dietro la nostra natura di animali pensanti – paiono esistere da molto prima.

7 dicembre 2017 – © Riproduzione riservata
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