Il gioco dell’orca
[di Ernesto Giacomino]
Nei principi fondamentali della microeconomia la concezione di sussistenza è abbastanza pragmatica: sono bisogni primari il mangiare, il curarsi, il coprirsi, il mantenersi un tetto in testa; e (volendo mantenersi larghi) i costi per spostarsi al lavoro e le spese per l’istruzione obbligatoria dei figli. Tutto il resto, che piaccia o meno, apparterrebbe al comparto dell’effimero.
Il problema è che una corposa fetta dell’economia italiana proprio su quell’effimero ci campa e dà a campare: elettronica, turismo, svago, ristorazione, bricolage, abbigliamento, calzature, automobili, artigianato e via cantando. Settori costantemente a rischio di stagnazione, giacchè è un decennio buono che al primo urletto di crisi il consumatore medio frena i soldini destinati al “superfluo” per deviarli su altro. Su cosa, però? Li mette in banca o sul libretto postale per trovarsi una riserva nei periodi di magra? Approfitta del calo fisiologico dei costi “del mattone” per dare casa ai figli? Li tiene nel materasso sperando che la convivenza con gli acari sprigioni una reazione chimica che li moltiplica?
Macché: dove più e dove meno, sostanzialmente se li gioca. Gratta & vinci, scommesse sportive, lotto istantaneo, videopoker, slot machine, casinò online: qualunque cosa, pur di non avere quello sgradevole timore che la fortuna stia passando di fianco senza salutare. Da un database messo recentemente online dal gruppo editoriale Gedi, ad esempio, spunta che la distribuzione di videopoker e slot machine sul nostro territorio è pari a un apparecchio ogni 91 abitanti, e che in media ciascun battipagliese, nel 2016, ci ha buttato dentro più del 6% del proprio reddito annuo. I cugini ebolitani, giusto per farci un’idea, a parità di reddito pro-capite e diffusione di videoapparecchi risultano aver speso, nello stesso periodo, quasi il 40% in meno. Dato, peraltro, ancora più preoccupante se si tiene conto che la statistica riguarda solo il mercato c.d. “elettronico” e tiene fuori la spesa in lotterie istantanee (che tra bigliettini da grattare ed estrazioni a ripetizione hanno reso le file dal tabaccaio più lunghe di quelle al Postamat nei giorni di pensione).
In realtà, tolte le stitiche commissioni ai gestori e i soldi restituiti in vincite (con un rapporto spesa/incasso, peraltro, che ha del ridicolo), tutto il flusso monetario regalato ai Monopoli di Stato va semplicemente a grattugiare di qualche virgola al ribasso gli abissi siderali tra entrate e spesa pubblica, e non apporta un grammo di produttività o ricchezza alle imprese (condizione necessaria e indispensabile, invece, per confidare in un minimo di vera ripresa economica). Ancor peggio, poi, se i soldi investiti dal giocatore non provengono da risorse proprie, bensì (come succede sempre più spesso) da indebitamento con banche e finanziarie: il che significa distogliere risparmio privato da investimenti utili e bruciarne una parte per comprarsi illusioni. Peraltro, con tutte le drammatiche conseguenze in ambito sociale e familiare ben note quando il divertimento sfora nella patologia e, paradossalmente, diventa davvero un business redditizio: per molti – assistenti, consulenti, usurai – fuorché per il giocatore.