Il disturbo da videogame

“Non sa ancora leggere ma è già bravissimo a cercarsi i video ed i giochi che gli piacciono su internet!”, mi fa notare una nonna compiaciuta mentre sto visitando il suo nipotino che è come ipnotizzato dallo smartphone che stringe tra le manine. In questi giorni post feste natalizie ho avuto modo di notare che Babbo Natale è stato molto generoso nel regalare ai bambini videogame incentivandoli così ad utilizzare ulteriormente i vari strumenti elettronici che li circondano.
Non a caso nell’ottobre scorso il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) ha deciso che i videogiochi potranno entrare a fare parte delle discipline olimpiche al pari dell’atletica leggera: chissà se tra i fattori che hanno condizionato tale scelta abbia influito il fatto che i giochi elettronici muovono nel mondo un business di circa 493 milioni di dollari ogni anno…
Ma mentre il CIO prendeva questa decisione, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) lanciava l’allarme sulla dipendenza patologica da videogame, riconoscendola come vera e propria malattia. Nell’edizione 2018 del manuale diagnostico delle patologie (ICD, International Classification of Diseases), l’OMS inserirà per la prima volta anche il “disturbo da videogame” alla stessa stregua delle dipendenze da droghe, alcool, tabacco, gioco d’azzardo. Si può parlare di disturbo da videogame quando l’attaccamento ai videogiochi diventa ossessivo per un bambino (o per un adulto, non fa differenza), quando ne condiziona i progetti per la giornata, quando arriva ad imporsi come l’unica attività programmata.
A novembre scorso, nell’ultimo mega-congresso della Radiological Society of North America (RSNA), è stato presentato uno studio condotto presso la neuroradiologia dell’Università di Seul (Corea del Sud), effettuato utilizzando la spettroscopia con tecnica di risonanza magnetica (MRS): in pratica una risonanza magnetica in grado di misurare la composizione chimica del cervello.
Tale studio ha dimostrato che il cervello dei soggetti con cyber-dipendenza (da internet o da smartphone) è diverso da quello dagli altri bambini. Il cervello dei ragazzi dipendenti presenta un eccesso del neurotrasmettitore inibitorio Gaba (acido gamma aminobutirrico) in un’area particolare del cervello chiamata giro cingolato anteriore. Il dottor Hyung Suk Seo, autore dello studio e professore presso la Korea University di Seoul, ritiene che l’aumentata concentrazione di GABA interferisca nella regolazione del comportamento emotivo e cognitivo.
Per misurare la gravità della dipendenza, i ricercatori coreani hanno utilizzato test standardizzati per verificare come e quanto l’utilizzo dei mezzi elettronici influenzasse le attività della vita quotidiana, la vita sociale del ragazzo, i suoi sentimenti, la sua produttività, il sonno. I ragazzi inclusi nello studio avevano tutti un punteggio molto elevato (indice di maggior gravità) nei campi dell’ansia, dell’insonnia, dell’impulsività, della depressione e dell’ideazione suicidaria.
Meno male che esistono anche genitori che, malgrado il modo di fare imperante, educano i loro figli ad un utilizzo intelligente degli strumenti elettronici (al massimo un’ora al giorno) e li spronano a seguire attività alternative quali leggere libri, ascoltare o imparare musica, praticare sport di gruppo, giocare o fare belle passeggiate all’aria aperta, anziché vederli buttati per ore su un divano e con lo sguardo perso in uno schermo.

26 gennaio 2018 – © Riproduzione riservata
Facebooktwittermail