A ponti fatti
[di Ernesto Giacomino]
Poco da rammaricarsi, capita in ogni famiglia quel parente che – un po’ perché di indole, un po’ perché adagiato sulla nostra inevitabile rassegnazione – è destinato a rimanere pecora nera a vita. Quel cugino che a quarant’anni è ancora fuori corso a ingegneria e pretende la paghetta settimanale; lo zio al quinto matrimonio e decima impresa fallita che spazzola i risparmi dei familiari per un nuovo business a Saigon; il fratello ufficialmente emigrato per lavoro in Slovenia ma di fatto in fuga eterna da banche e creditori.
Sono fatti fisiologici, congeniti. Ineluttabili. Cosicché pure a noi battipagliesi, ciclicamente, ogni tot di tempo, tocca fare i conti con quel solito, ostinato parente ultracinquantenne per il quale s’è persa ogni speranza d’un ritorno alla retta via: il sottopassaggio ferroviario. O, più precisamente, ciò che avrebbe dovuto costituirne la parte di percorrenza pedonale: scalette, gabbiotti d’ingresso, passerelle. Tutti quei sedicenti adeguamenti architettonici susseguitesi negli anni, insomma.
Un pugno in un occhio in pieno centro. L’ennesimo, in verità, ma questo fa più volume. Peggio: fa più male. E non per quella valenza simbolica di quando fu costruito, tipo il ponte ideologico che riannetteva alla città un trancio di popolazione sbalzata fuori dai passaggi a livelli, il cemento d’affratellamento che ci si ostinava a tirare su nonostante l’infilata di collaudi negativi, di crolli, di lesioni, di scarsa portata sotto le pance ciniche e ferrose dei treni.
No: è perché, ogni volta che ci si mette mano per dargli una rinnovata, ci crediamo. Confidiamo, speriamo. L’ultimo ammodernamento sembrava quella definitivo, ché nonostante lo scetticismo degli esperti eravamo riusciti a colmare la lacuna d’avere le zone pedonabili precluse ai disabili. E quindi, trovandoci, oltre a costruire le rampe avevamo dato pure una stuccata, una ripulita, una ripassata d’intonaco. Troppa spesa, forse, per poterci permettere pure lampadine decenti. Da anni, a percorrere quella trentina di metri di ballatoio interrato, l’effetto di massima è quello d’un giro nella casa delle streghe alla festa della Speranza del ’79. Una penombra costante e inquietante tra l’olezzo dei gas di scarico, un salto in gola per ogni passante che ti trovi di fronte in direzione contraria, di cui riesci a vedere il volto solo quando t’è ormai di fronte o se sei uso camminare col caschetto con la lampada a infrarossi.
E sì che questo tipo di strutture qua sono le più pericolose per antonomasia, passaggi strettissimi con due sole vie d’uscita, e ad organizzarsi con qualche complice e bloccarle entrambe non serve un master in fisica quantica ad Harvard. Cioè: due soli elementi possono costituire un deterrente per i malintenzionati, e il primo è l’illuminazione. Forte, viva, a giorno, senza patemi d’animo per le bollette. Altro che una manciata di faretti annebbiati, che se li guardi più attentamente sembrano occhi d’un ronzino azzoppato che ti scongiura di finirlo con un colpo alla testa.
Poi, va be’, l’altro elemento di deterrenza è fin troppo ovvio e scontato; eppure il solo nominarlo, qua da noi, è una cannonata sulla croce rossa. Si chiamerebbe videosorveglianza, e il condizionale appare d’obbligo: perché qualunque cosa, per avere un nome, dovrebbe prima essere nata.
15 febbraio 2025 – © riproduzione riservata


