“Accade che sei, e che continui”
[di Romano Carabotta]
È sempre difficile parlare di chi non c’è più. Soprattutto di chi ha trascorso tanti anni accanto a te, di chi eri abituato a vedere tutti i giorni, di chi condivideva le tue giornate, la tua quotidianità, e poi, all’improvviso, da un istante all’altro, è scomparso, per sempre.
È difficile parlare di persone buone che poi se ne vanno. Di chi ha sempre dimostrato un affetto naturale verso tutti, quasi involontario, sicuramente spontaneo. Di chi è stato capace, con straordinaria simpatia (nel senso greco del termine, e cioè con straordinaria conformità di sentimento, compartecipazione affettiva) di vedere il dolore negli altri, di comprenderlo fino in fondo e di lenirlo con inconsueta facilità, come solo chi ha sofferto tanto sa fare.
Sicuramente non è più facile parlare di chi ha avuto da sempre a che fare proprio con la sofferenza, avendo però la capacità di trasformarla in forza per sé stesso e per gli altri. Di chi amava stare in mezzo agli altri, di chi sapeva far stare bene.
È assurdo parlare di un diciassettenne dagli occhi a mandorla, che tanto richiamavano il suo amato oriente, e dai capelli un po’ arruffati, che amava la musica, la chitarra, le arti marziali e le belle moto, stroncato nel fiore degli anni.
In queste occasioni si dice sempre che se ne vanno via i migliori. È vero, invece, che i migliori, coloro che hanno lasciato un solco profondo in quelli che hanno incontrato, continuano a vivere per sempre, nel ricordo di chi rimane. E così accade che per la morte non c’è spazio, ma che le vite volano e si aggiungono alle stelle nell’alto cielo. Accade che Matteo Rinaldi è vivo e arde e arderà per sempre nel ricordo di chi gli ha voluto bene e di coloro ai quali ha voluto bene. Accade che Matteo è, e che continua.