Angolo rottura

[di Ernesto Giacomino]

Cosicché succede che dopo i secchi di letame ci toccano quelli di asfalto. Perché la nazione è magnanima e soprassiede, e in questo marasma d’illeciti e irregolarità appena accertate e sanzionate ci manda comunque il Giro d’Italia. Fuori il solito vestito della festa, dunque. Ovvero: piccoli rappezzi stradali per un grande manicomio di caos e disagi. Passa per via Belvedere, il giro. Per l’ultimo moncone, quello attaccato a via Roma. Poi boh, il ciclismo non lo seguo, magari proseguirà per via Mazzini, improbabile che distruggano un centinaio di bici catapultandole dal sottopassaggio.

Se si tratta, invece, di distruggere gli ammortizzatori d’un centinaio di macchine, beh, lì il discorso è differente. Lì ce la cantiamo e suoniamo in casa, chi vuoi che venga a controllare.

Prendi la litoranea, ad esempio. No, non quella grossa e lunga che si fa l’intera costa: quell’altra, la stradina, quella interna. O meglio, ciò che ne è rimasto. Una volta era un’intera strada che congiungeva il Lago alla Spineta, fronteggiava tutti i lidi, ci passavano anche i pullman. Poi boh, ne sono rimasti monconi sparsi, interrotti da qualunque cosa: dune, parcheggi improvvisati, allungamenti di spiagge con legalità da definire. E sul po’ di tratto viabile ancora in vita, che ne parliamo a fare: asfalto sparito e crateri larghi una vasca e profondi un palmo di mano, ché pure a volerci fare motocross c’è da munirsi prima di uno scafandro. Ammortizzato, ovviamente.

E comunque ce n’era un pezzo, quello che va dalla Spineta all’altezza della Baia dei Delfini, che quest’anno i gestori dei lidi interessati volevano assolutamente sistemare. Sono andati al Comune, ma gli hanno risposto macché, non c’è cash o volontà o entrambe, ci risultano da fare cose più prioritarie. Allora quei gestori là hanno specificato: non ci avete capito, non vogliamo né tempo né soldi né asfalto, lo facciamo a spese nostre, stiamo qua solo per farci autorizzare. Ché quella, la strada, mica è la nostra e ce la sistemiamo come ciufolo ci pare, no?

Ah beh, allora la cosa cambia, hanno detto quegli altri là. E da un “non lo possiamo fare” s’è passati a un più categorico “non v’azzardate a farlo”. Roba, credo, di vincoli e regolamenti, e la pubblica proprietà, e la sicurezza eccetera. Pare una barzelletta: in realtà è ancora peggio. In un Paese in cui Tremonti voleva vendersi spiagge e monumenti agli zii d’America, in cui l’economia nazionale è decisa a tavolino dai maneggioni delle banche private, il concetto di cosa pubblica, quando vai ad applicarlo alle inezie, diventa più sacro e inviolabile d’una reliquia di santuario. Logico, per certi aspetti: è più usuale, prevedibile, istituzionale beccarsi denunce a raffica per slogature e cadute e pneumatici esplosi che dar conto a un qualche soprintendente o commissario ambientale in odore di promozione: nossignori, comando io, quella strada non s’ha da fare, né domani né mai.

E però qui no, dai, guardiamoci intorno. Roma è lontana, i cavilli pure. Una soluzione “inter nos”, se è a beneficio della collettività, la si può sempre trovare. Specie in un Comune in cui, a lasciar fare per anni agli addetti ai lavori, non è che ci abbiamo guadagnato granché.

15 maggio 2014 – © riproduzione riservata

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