Blue monde

[di Ernesto Giacomino]

Centro, tardo pomeriggio, fine settimana. Rincaso a piedi e m’imbatto, rasente a un marciapiede, nella scena canonica del tizio che ha parcheggiato in divieto di sosta e al ritorno s’è trovato la multa sul parabrezza. Rimbrotti e imprecazioni, quindi, e tutto un flusso di cose più o meno irriferibili. Tra cui, però, una frase che di colpo m’ha acceso una lucina: “Ma uno, qua, la macchina dove deve andarla a mettere?”.

Che per carità, è una delle solite domande retoriche di rito, una banalità tra le altre. Roba a cui, fosse davvero una richiesta, risponderesti che no, basta guardarsi intorno, serve solo sacrificare quel mezz’euro al parcometro et voilà, fino a trenta minuti te ne stai parcheggiato legale e tranquillo.

Poi però, così, a sfizio, ho buttato un’occhiata in giro. E quindi sì che ce n’erano, di posti a pagamento con la loro bella (e nuovissima) demarcazione a strisce blu: decine di metri. Tutti, però, occupati: ma non così, di passaggio. Espropriati, dico. Scardinati dalla loro funzione di parcheggio a tempo per diventare proprio box all’aperto, garage arieggiato, autorimessa. Macchine che parevano stare là da così tanto tempo che niente niente t’aspettavi che da un momento all’altro ti sbucassero davanti, che ne so, un prototipo di Ford T, una Lambda del ’31, una carrozza di Cenerentola. Che non ne sono sicurissimo, voglio dire, ma di qualcuna mi pare d’aver visto gli pneumatici trasformati in radici e conficcati nell’asfalto.

Salvo rare eccezioni, la particolarità estetica che le accomunava un po’ tutte era il cruscotto: bello pulito, sgombro, intonso. Senza nessuno di questi volgarissimi biglietti emessi dal parcometro, che deturpano solo l’armonia. La famosa legge del contrappasso, insomma: io che vorrei pagarlo, il posto, non lo trovo perché occupato da chi non lo paga, e quindi m’appoggio un attimo dove non potrei. Col risultato che io mi becco la multa, e quell’altro se ne riparte tranquillo in tarda serata dopo aver fatto l’aperitivo comodo con gli amici.

Che poi no, messa così parrebbe un’ingiustizia. In realtà è solo finanza comunale creativa, scorie dei vecchi tempi dell’Ente-imprenditore di berlusconiana memoria: t’illudo che la sfanghi con le tasse colpendoti col gratta & vinci.

Ragioniamoci: con una multa per divieto di sosta incasso mediamente oltre quarant’euro; per ottenere lo stesso importo dai parcometri devo far sì che mi parcheggino nei posti a pagamento almeno quaranta macchine per un’ora, o almeno ottanta per mezz’ora. Però per incassarli dai parcheggi devo mettere qualcuno a controllare i biglietti sui cruscotti, il che significa distogliere personale da altre mansioni, e quindi costi supplementari. Oltre al fatto che se comincia a correre voce che i posti a pagamento davvero si pagano (dopo anni d’anarchia che hanno relegato la cosa a leggenda metropolitana), è facile che la clientela potenziale si dimezzi e che parecchi si sacrifichino a non prendere più l’auto per spostarsi dal garage al supermercato di fronte casa.

Con buona pace, peraltro, dell’indotto dei parcheggiatori abusivi: quelli che a tutt’oggi, se t’approssimi al parcometro, ancora possono giocarsi la frase di rito: “Dotto’, no, dateli a me che tanto qua nessuno controlla”.

30 aprile 2021 – © riproduzione riservata

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