Bufala Bill

[di Ernesto Giacomino]

Ci avrete fatto caso, no? Da un po’, alle porte di Battipaglia, c’è quest’animalone fatto di bottigliette di plastica, e ai suoi piedi una mozzarella tirata su con la stessa tecnica. Si chiama “La Bufala Riciclata”, è una scultura interamente realizzata con recuperi dalla raccolta differenziata. Il tutto lo s’incrocia poco dopo l’ingresso in città da via Belvedere, alla prima rotatoria, con un posizionamento che è già emblematico di suo: davanti alla facciata appena riaffrescata del Palazzetto Zauli, contornato da nuove aiuole e vecchie cartacce. Una scultura riciclata nella struttura ricucita.
Fermandoci all’animale, comunque, chapeau agli artisti. E ci mancherebbe. Singolare l’idea, efficace la realizzazione. Perigliosa, forse, la sola interpretazione ai meno avvezzi.
Chiaro: magari è solo per difficoltà tecniche di adattamento della materia che quella bestiola di plastica paia qualunque bovino esistito o esistente sulla faccia della terra – da un uro preistorico allo gnu striato della Tanzania – fuorché una bufala. Lode alle intenzioni, ma c’è un dettaglio che svia tutto: le corna. Quelle delle bufale sono all’ingiù, lo sappiamo da che eravamo bambini, anche se era raro vederle fisicamente: ma quei faccioni tristemente cornuti campeggiavano ovunque, dai disegni sulle buste dei caseifici (quando i caseifici, prima d’assurgersi a complicate cittadelle industriali, in città li trovavi disseminati un po’ ovunque: vicoli, palazzi, scantinati) alle teste impagliate che ogni tanto sormontavano le insegne delle rivendite più trash. Messe così come sono lì, invece, belle dritte e puntute alla Belzebù, danno più l’idea di un toro pronto alla carica. E anche la scultura della mozzarella, e vabbè. È sferica, studiata, equilibrata. Perfetta. Laddove invece la mozzarella, un po’ come la Terra, vive anche per la magia dell’imprecisione geometrica, per quel suo essere goffamente a metà tra un sasso gommoso e un cuore pulsante di latte cagliato.
Allora, metti che sei di Milano o, che ne so, Orvieto, arrivi a Battipaglia e vedi tutt’altro. Un toro che gioca al pallone, ad esempio. Sotto il Palazzetto dello Sport. T’immagini che lì dentro si stia tenendo qualche torneo importante, una tenzone a metà tra un rodeo con la palla e una partita di calcetto tra mariti cornuti. O, peggio ancora, che la scena sia una riproduzione in bassa lega del famoso Charging Bull di Wall Street.
Ecco: messa così avrebbe più senso. Bovino e sfera messi lì non a simboleggiare l’orgoglio della tradizione casearia battipagliese, ma il fatto che qui puoi fare transazioni degne della migliore borsa mondiale. Più modeste per quantità, per carità, ma parimenti redditizie: magari non proprio affari, ma affarucoli torvi sì; non scambi di azioni ma sotterfugi di malazioni; non acquisti di titoli di Stato, ma ruberia di status titolati.

Forse è per quello che non ci si decide a farle rimodellare, quelle corna e quella sfera. Imprenditoria sana, dignità contadina, ricchezza meritata. Non siamo anacronistici: chi vuoi che rappresentino più, questi valori?

23 aprile 2012 – © riproduzione riservata

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