Cinquantacinque, quasi sessanta

[di Gabriella Pastorino]

Oggi compio gli anni ed entro nella zona nebulosa che lentamente, ineluttabilmente, mi porterà ai sessanta.  Compio cinquantacinque anni. Com’è possibile, visto che sono ancora una ragazza e spesso, più che camminare, saltello? Questa estate ho indossato quasi tutti i giorni un vestito di taffetà con la gonna e palloncino e tante farfalle gialle che da un prato verde si levano verso un cielo quasi viola. In realtà l’avevo comprato per il matrimonio di zio Titino che, dopo dodici anni di convivenza con Vittoria e quattro figli, finalmente cedeva. Nessuno in famiglia aveva protestato per la mia mise perché nessuno l’aveva vista: sia Luciano che le gemelle si erano rifiutati di partecipare a un evento che si annunciava piuttosto originale, con Titino e Vittoria che si sarebbero sposati sulla spiaggia, in costume, incuranti di toccare insieme i due quintali. Io comunque, dopo le divertentissime nozze, mica potevo lasciare appese tristemente in un armadio tutte quelle farfalle che arrivavano a sfiorarmi il collo; ma quando le gemelle Mara e Lara e Luciano mi hanno visto, hanno fatto una sceneggiata: quel cafone di mio marito sottolineava che lui ha un cognome rispettabile mentre le monachelle squittivano ricordando i miei anni e mai sono uscite con me quando indossavo le mie farfalle. E io quel vestito l’ho indossato sin quasi a consumarlo. 

Accidenti, da cinquantacinque è un passo per ritrovarsi sessantenne.
Ho deciso di affrontare la china che mi porterà in braccio ai sessanta come mi si confà: abbiamo festeggiato in pizzeria, con tizi più o meno miei coetanei. Ecco, il mio racconto inizia qui; sino ad ora ho solo descritto lo sfondo, l’atmosfera. 

Niente alcolici pesanti, sono una ragazza mica son scema, ma eravamo sazi di pizza e birra quando abbiamo iniziato a ricordare il liceo, il nostro amato-odiato Tasso e i nostri prof. E nella cacofonia imperante ho captato un nome, Tiziano. 

“Il Vecellio?”. Ha chiesto qualcuno, e il mio cuore ha fatto un salto, finendomi in gola a bloccarmi il respiro.
Si sono accavallate le voci proprio come nei film, mentre mi si materializzava nel cuore e nella mente Tiziano, il mio Amore. Poi Armida, che proclama di essere smemorata ma sa tutto di tutti, ha sovrastato la canea: “A Toronto aveva fatto fortuna, chissà perché è tornato – e poi la pugnalata – Ma il Vecellio non era il tuo grande amore?” e si rivolgeva a me.

“No – ho pensato – non era il mio grande amore, lui è l’Amore”. E ho detto: “Sì, filavamo, quando eravamo ragazzini”.
Il Vecellio colpiva ancora; e dai prof. (quasi tutti morti, accidenti!) si è passati a lui; e a me, anche se ero lì a biascicare: “Cotte da ragazzini”, mentre cercavo di captare se Tiziano era tornato, dove stava, con chi, perché…

Dovevo rivederlo. Assolutamente. Mi smontavo da sola: sarà diventato calvo (e sotto le dita ne sentivo ancora la setosità) e di sicuro avrà la pancia – come Luciano – e sentivo le sue dita intrecciarsi alle mie e… E dove caspita sta e perché è tornato? Se chiedo, sollevo un vespaio e lo sapranno Mara e Lara e Luciano e…

Ma fu proprio lui, mio marito, che due giorni dopo, a cena, disse che aveva incontrato il Vecellio: “Te lo ricordi, era il tuo grande amore” e le gemelle iniziarono un terzo grado… “Mamma con un grande amore? Non ci crederò mai”. Io masticavo patate e fagiolini senza mandar giù il boccone, visto che la gola si era chiusa di nuovo. 

Poi fu il caso a farmi rivedere Tiziano. Al corso, in centro, dinnanzi a un ristorantino aperto da poco che controllava il menu vergato col gesso su una lavagna. Portava i jeans, la sua divisa di quando era ragazzo, e sopra indossava un giaccone di renna imbottito di lana. Non mi emozionai nemmeno tanto, mi sembrò quasi normale rivederlo, tuttavia rimasi impietrita. Poi lui si girò, mi vide e mi chiamò per nome. Non appariva nemmeno meravigliato, come se fosse normale rivedersi dopo decine di anni. Mi prese le mani nelle sue e chiese: “Entriamo? Ai miei tempi non c’era, perlomeno io non lo ricordo, ma i prezzi son buoni e vedo che fanno due tipi di parmigiana”. 

Entrammo. Ordinò una parmigiana di melanzane per due e, prima a stento, poi quasi affannosamente, ci parlammo, facendo rivivere due ragazzi innamorati persi che per anni avevano favoleggiato di una vita insieme e che non avevano saputo concretizzare niente. Ci fermammo quando non riuscimmo a dire come e perché tutto quell’Amore si fosse dissolto. Senza guardarci negli occhi riassumemmo poi i trenta anni che dividevano quei due ragazzi seri, fattivi e innamorati da una grigia impiegata di banca-moglie-madre e da un uomo deluso, solo e vinto.

Non ricordo chi dei due chiese per primo: “E ora?”. 

L’incanto, la fascinazione si dissolsero, schizzai in piedi lasciando a mezzo la parmigiana e fuggii; scappai via dai sogni, dall’Amore, dagli anni giovani. Fra un saltello e una corsetta, frugando nello zainetto recuperai nel cellulare i miei cinquantacinque anni: una sfilza di chiamate, dove sei…? Perché non rispondi…? Che succede…?

E ora sono qui. In un alberghetto in periferia. Ogni volta che posso incontro furtivamente la mia sognante gioventù, come una qualsiasi volgare mezzacalzetta che cornifica il marito. Tiziano favoleggia di una nuova vita insieme nella sua casa nella campagna toscana. Io taccio, talora balbetto della laurea e della sistemazione di Mara e Lara e poi si vedrà. 
Non so.

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