Con calma e per favore
[di Ernesto Giacomino]
Procedono a un ritmo vertiginoso i lavori di riqualificazione di piazza della Repubblica: dopo soli tre mesi dall’installazione del cantiere parrebbero essere state spostate già ben due mattonelle e spazzati almeno centocinquanta grammi di foglie secche (pare sia stato anche aperto un sacchetto di cemento, ma al momento non ci sono conferme ufficiali). Peraltro, il tutto perfettamente allineato con i tempi previsti di realizzazione esposti sul cartello informativo affisso sulla recinzione ma obbligatoriamente invisibile per la famosa legge sulla privacy delle opere pubbliche (ché pure loro, si sa, hanno diritto a una vita lontano da sguardi indiscreti).
Di questo passo, voglio dire, quella leggenda delle costruzioni dei megaponti in Cina in ventiquattro-trentasei ore ci farà un pettinatissimo baffo: qua stravolgeremo addirittura la teoria della relatività, andremo così veloci da proiettarci indietro negli anni e la nuova piazza la consegneremo giusto in tempo per festeggiarci la vittoria ai Mondiali dell’82.
È che si scherza, per carità. In realtà non c’è fretta, si faccia con comodo: d’altronde non stiamo parlando di una grande piazza al centro storico della città, affacciata su una strada statale, la cui temporanea impraticabilità riduce pericolosamente la carreggiata (vedasi incrocio con via Stella) e sottrae una ventina di strategici posti auto. Si possono ben aspettare sei, otto, tremila mesi: più che andare in terapia, graffiarci le fiancate nelle strettoie, passare alla storia per aver costruito la più grande pozzanghera a cielo aperto del mondo, cos’altro potrà mai accaderci?
Che poi in realtà no, a lamentarsi di questo fantomatico operato al rilento ci si dimostra comunque in malafede. Il fatto che si stia facendo di tutto per consegnare l’opera al più presto si desume facilmente da un’altra segnalazione scritta affissa al cantiere (questa sì, davvero esistente) che dice “personale al completo”: segno tangibile che c’è un esercito, a lavorare, là, che Babele scansati. Lo confermano anche i residenti dei palazzi intorno: non se ne può, dicono, ogni giorno manco spuntano le prime luci dell’alba che già è tutto un frastuono di semoventi, gru, picconi, martelli pneumatici, camion che scaricano, operai che urlano o imprecano o cantano “O sole mio” a squarciagola per otto ore filate.
Personale al completissimo, eh sì, dove vorreste avviarvi a chiedere lavoro: fareste fatica finanche a entrarci fisicamente, nel cantiere, ché tra uno e l’altro non ci sarebbe manco il metro e mezzo di distanza delle norme antiassembramento per il Covid-19. Tant’è che, per fare spazio, una delle prime azioni a cantiere insediato è stata quella di buttare per aria un albero secolare. E badate bene: c’è chi se n’è pure lamentato, ha sollevato problemi, chiesto spiegazioni. Gente per cui, insomma, la salute di un albero valeva più di quella della folla nutrita di operai che ci lavoravano intorno.
È il bello dei lavori pubblici, no? Non solo non ti ritrovi nessun proprietario ad alitarti sul collo, ma hai pure una pletora di leggi a tutelarti contro qualsiasi rallentamento o impedimento. Perché in fondo parliamo di beni comuni: e quelli, si sa, proprio perché di tutti, non appartengono davvero a nessuno.
13 novembre 2021 – © riproduzione riservata