Dica trenta-tie’

[di Ernesto Giacomino]

Diciamoci la verità: già il nome, Ospedale Unico della Valle del Sele, pareva più una marca di minestrone o il nome di una qualche band da centro sociale occupato che una soluzione concreta contro la spesa abnorme della pubblica sanità. Anche se balenava la certezza che noi, per questa tendenza moderna di tirare via acronimi da ogni cosa (ormai pure i mariti, prima di rincasare per pranzo, urlano al cellulare alle mogli “SABLP!”, in luogo del più affettuoso ma ormai anacronistico “sto arrivando, butta la pasta”), avremmo presto finito per ribattezzarlo con sigle tipo OUVS, OSUVASE, OSPESEL e via cantando, confondendolo con quelle sottomarche di sindacati di categoria in cui costa più correggere gli errori di stampa sulle tessere che organizzare serrate in fabbrica.

Già m’immaginavo il supplizio, per certe frange d’utenti poco avvezzi alla comunicazione moderna: signo’, dovete rivolgervi all’OUVADES, qua questi esami non li facciamo; e allora vai col pellegrinaggio della povera vecchina da un punto all’altro del pianeta, senza sapere dove andare ma con in corpo la vergogna di chiedere ulteriori spiegazioni a chicchessia.

Dell’ospedale Unico se ne parlava da anni come di un progetto imminente e ultrarivoluzionario, al punto che già pregustavamo questo moderno che avanzava, gli sprechi che si trasformavano in guadagni, Babbo Natale che scendeva dai camini e i bambini che sbucavano dai cavoli. Doveva prevedere un accorpamento delle unità di Eboli, Battipaglia, Roccadaspide e Oliveto Citra, e stringendosi un poco c’entravano pure il Getsemani e il santuario di Materdomini. Il tutto, chissà, magari posizionato in un punto intermedio tra le quattro località, tipo l’autogrill di Campagna o il mercato ortofrutticolo di Capaccio. Dentro ci avrebbero lavorato tutte le vecchie glorie di E.R., Clooney compreso, più qualche sfigato risultato poco fotogenico ai provini di Grey’s Anatomy. Una cosa da rabbrividirci, e nemmeno poco.

Poi, ecco qua, quando mancava un niente dal dare il via ai lavori, qualcuno sarà andato a fare “toc-toc” alla porta della Regione e avrà spiegato per bene le cose. Tipo, per dire, che avere quattro piatti in cui spiluccare è diverso da averne uno solo, perché poi basta guardare una delle due cose, mano o piatto, e ci vuole niente a tenere sempre a portata d’occhio tutto quello che succede. O che – va bene il risparmio di spesa e compagnia bella – ma il non quadruplicare più primari e inservienti e paramedici e convenzioni con ditte di vigilanza e cooperative di parcheggiatori avrebbe creato qualche squilibrio nell’indotto economico, specie tra i concessionari di fuoriserie, i ristoranti di lusso e le agenzie di viaggi.

Cosicché, miracolo, quella che pareva l’opera più urgente e necessaria per rimettere in sesto qualche conto sballato, l’iniziativa sbandierata ai quattro venti come prossima e irrimandabile per allocare la sanità campana nel girone, se non dei promossi, almeno dei rimandati a settembre, di colpo è stata definita dalla Regione – con apposito, recente decreto – “non prioritaria”. Perché pare che ci sia accorti, dopo un po’ d’anni, che tale struttura non sarebbe sorta dal nulla come il castello di Merlino, ma che per farla ci sarebbero voluti dei soldi.

Al che, tutti stomacati e sdegnati per essere la cosa scaduta su questioni così vili, i capoccioni regionali avrebbero deciso di mettere il veto alla costruzione, apponendo di fatto la parola “fine” all’intera questione. E non vi dico, in ciò, come c’è rimasto Clooney.

31 luglio 2013 – © riproduzione riservata

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