Distanza d’insicurezza

[di Ernesto Giacomino]

Chissà se sarebbe andata meglio, ribaltando l’ottica dell’applicazione delle misure di protezione. Sensibilizzando le persone su come non contagiare gli altri, piuttosto che sul come non farsi contagiare. Dicendo loro di igienizzarsi le mani prima di toccare roba sugli scaffali dei supermercati, e non dopo. Spiegando che essere soli in ascensore è sicuro per sé stessi, ma se si è inconsapevolmente contagiosi è insicuro per gli altri che la prenderanno dopo. Specie se si è tossito, o starnutito, o anche solo sbadigliato con più veemenza del solito.
Essere cauti per proteggere, e non per sentirsi più protetti. Avere quel reale e sostanziale amore per il prossimo che per ora è solo vagamente scimmiottato con i tricolori ai balconi e i flash mob condominiali. Il famoso senso di appartenenza, di reciproca attenzione alla conservazione della specie, che l’animale uomo non possiede geneticamente come singolo, ma che decine di millenni di evoluzione avrebbero dovuto apportare alle comunità come un’appendice postuma sulla coscienza.
Perché il grosso delle (vere) elusioni ai divieti di questo lungo periodo di privazioni è spesso avvenuto a cura di gente che, nell’infrangere le regole, ha valutato esclusivamente i rischi per la propria incolumità. Peccatori di troppa autostima che, sentendosi al sicuro, hanno lasciato rimbalzare palline in una stanza chiusa con la certezza di non esserne colpiti.
Parimenti – e paradossalmente – le scene di isteria contro i runner, gli appostamenti contro i troppi acquisti di pastina per il brodo della vecchietta del palazzo affianco, i droni e gli elicotteri a scongiurare isolati assembramenti sul terrazzo di famiglie che già vivevano assembrate da quaranta giorni appena due metri più sotto, appaiono figli dello stesso atavico e incontrollabile egoismo: “non so se quello che stanno facendo sia giusto o meno, ma non potendo farlo io non devono neanche loro”.
Eppure, forse, c’era una direzione più benefica, verso cui indirizzare questa smania d’impicciarsi a tutti i costi dei fatti altrui. Ad esempio, osservare e segnalare, con lo stesso rigore e pretesa di giustizia, i concittadini in difficoltà: i meno abbienti, gli indigenti, le persone sole. Non quelli noti, ma la folla silenziosa di gente che comincia a vivere di stenti e lo nasconde: per un proprio senso di dignità, pudore, compostezza sociale, timore di essere di peso per gli altri. Quelli che non sono mai dipesi da nessuno e che, per orgoglio, d’istinto interpretano questa circostanza straordinaria e fortuita come colpa o fallimento personale. Che restano chiusi in casa con la dispensa vuota e fingono che vada tutto bene, che non necessitano di aiuto, che “i buoni alimentari è meglio lasciarli a chi ne ha davvero bisogno”. Una riservatezza condivisibile o meno, ma che non è un alibi per voltarsi altrove: magari senza gesti eroici, ma semplicemente facendosi trovare vicini, lasciando capire che ne abbiamo intuito le difficoltà, che siamo pronti a dare una mano. Umilmente, solidalmente, con la massima discrezione possibile.
Sarebbe un buon modo, tra i migliori, per dare un significato diverso da quello letterale a quel ripetuto “noi” che sappiamo mettere negli slogan.

Foto di Eugenio Mastrovito

23 aprile 2020 – © Riproduzione riservata

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