Don Luigi Piccolo, il don Bosco di Taverna

[di Carmine Landi]

“Vado a Battipaglia”. Parole alle quali faceva abitudinariamente ricorso, un po’ per rimarcare l’orgoglio dell’appartenenza, un po’ per la distanza che separa la popolosa periferia dal cuore della città, gran parte della comunità d’ogni Taverna – ce ne sono rigorosamente due: delle Rose e Maratea – prima d’allontanarsi dall’avvenente quartiere di frontiera per raggiungere il centro cittadino. Faceva ricorso: tempo imperfetto d’obbligo, perché, da poco più di due anni, pare che sia Battipaglia ad aver preso gradualmente la consuetudine d’andare a Taverna, polmone della sterminata porzione di Chiesa (include pure i quartieri Schiavo e Turco, Santa Lucia e Fasanara, la zona industriale e perfino un pezzetto d’Eboli) da allora affidata a don Luigi Piccolo. I battipagliesi del centro oltrepassano quell’odiosa barriera ch’è il sottopasso, curiosi di conoscere quel giovane prete – 39 anni – originario di Monticelli d’Olevano sul Tusciano, tornato ai piedi del Castelluccio (già a Sant’Anna da seminarista), dopo una travolgente storia d’amore con il popolo di Oliveto Citra, iniziata nel 2009 e terminata con la cittadinanza onoraria. La fama lo precede: stimola finanche l’interesse d’atei ed anticlericali, perché, pure agli occhi di chi non crede, “don Luigi è un’altra cosa…”. 

«Vado a casa». Parole alle quali, invece, fa abitudinariamente ricorso la gioventù del posto quando varca la soglia di Santa Teresa del Bambin Gesù: al mattino, prima d’andare a scuola, la giornata non inizia senza citofonare per salutare il don. Dopo pranzo si corre in chiesa. Per studiare, strimpellare (c’è perfino una band parrocchiale: The Blue Note Tavern), curare le attività e i laboratori dell’oratorio (intitolato a san Giovanni Bosco, patrono dei giovani), il catechismo e l’Azione cattolica, preparare il musical o una trasmissione televisiva (Perché, neonato format dei “ragazzi di don Luigi”, in onda su SudTv), per una pizza, per stare con l’amico prete e “chiudere la chiesa” (scherzosa, ma non troppo, espressione dei familiari), non prima delle due e mezza di notte. Il “gruppone” fisso è di almeno 45 adolescenti.

«Qualcuno – confessa il parroco – m’ha chiamato “papà”. È la parola più bella: anche don Bosco era sempre chiamato padre». Padre, maestro e amico: impossibile capire il “fenomeno don Luigi” senza conoscere la spiritualità del fondatore dei Salesiani, che ne ha forgiato l’anima. «Consiste nella distruzione della barriera del tempo e dello spazio, perché, se relegati ad un’attività, i giovani credono di non essere nulla più d’una catechesi». Invece il tempo di don Luigi è tutto dedicato a loro. E la parrocchia è «famiglia e casa: i ragazzi non devono soltanto essere amati, ma sapere di esserlo». 

Così si smuovono le coscienze. Come quando – uno degli innumerevoli aneddoti – il parroco ha ricevuto la telefonata d’un quindicenne della parrocchia: «M’ha detto “Don Luì, ho incontrato un marocchino e gli ho parlato a lungo per capire come sta. M’ha fatto vedere i figli sul telefono: stiamo venendo in parrocchia, dobbiamo fare qualcosa per lui”». È il bene che cresce silenzioso. «Quando è arrivato qui – confessa il prete – avrei dovuto raccomandargli maggiore prudenza: ha fatto tutto il tragitto insieme ad un estraneo. In quel momento, però, ho adorato la sua incoscienza e, anziché redarguirlo, ho cercato di barattare la sua autenticità con la mia: dopo aver aiutato quella persona, ho deciso che, se quel giovane era venuto con lui a piedi da piazza della Repubblica alla parrocchia, io quell’uomo l’avrei fatto salire a bordo della mia auto e lo avrei portato a casa. E così abbiamo fatto».

Pure perché la povertà è il tema chiave per gli operatori pastorali di Taverna. Di tanto in tanto, durante l’intervista, il don deve alzare la voce, perché dall’altra parte della parete si martella: «Stiamo allestendo una cucina professionale». Lo scopo è il potenziamento della mensa di strada Don Pino Puglisi, progetto partorito un anno fa: i senzatetto, che non amano i riflettori, non varcano la soglia d’un refettorio. È don Luigi – tramite 30 volontari, tra cuochi e “portapacchi” – ad andare da loro, agli angoli delle strade, per far quotidianamente dono d’un pasto caldo. «Ne serviamo quasi 70 al giorno». Arginare la povertà culturale e quella materiale.  «Un giorno – racconta il prete – abbiamo dovuto allestire un corredo per un neonato già venuto alla luce. Era un bimbo rumeno. La mamma ci ha detto: “Fate voi”. M’ha commosso quel piccolo nato senza nulla, come Gesù Cristo: abbiamo scelto perfino la carrozzina». Un figlio adottivo d’una comunità ch’è un ponte fra terra e cielo. Presto pure visivamente: «Dopo due anni di fase organizzativa – annuncia il don – a brevissimo parte il cantiere per il campanile». Santa Teresa è l’unica parrocchia in città che ne è sprovvista: «E un campanile è identità, è un desiderio del quartiere». Quel rione che non va più a Battipaglia: ora è Battipaglia a venire a Taverna. 

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