Fusse che fusse…
[di Ernesto Giacomino]
Arriva, il fatidico giorno. State calmi che arriva. Lo si aspetta se non altro per curiosità, per verificare se siamo ancora avvezzi alle urne: noi, che – in buona o malafede – s’è stati comunque mandanti di amministrazioni a delinquere, e per questo rei di colpe riflesse da punirsi con lo scippo del voto. Ma lo si aspetta anche per altro, quel giorno delle elezioni regionali. Lo si aspetta per capire se qui a Battipaglia siamo cambiati, se abbiamo imparato la lezione o se invece (capatosta) dal basso di certe condizioni etiche e culturali esiste ancora la spocchia di volerla insegnare agli altri. Lo si aspetta per vedere quale nuova classe politica si è generata in questa attesa forzata: se davvero c’è lo sporco che indietreggia e il pulito che avanza, se davvero i programmi sono piani per tutti e non strategie per pochi. Il problema è che oggi nemmeno sapremmo più dirlo, che vogliamo dall’esercizio di questo potere dal nome altisonante: democrazia. Soprattutto noi battipagliesi, poi: qui, se delusione e scetticismo fossero banconote ne avremmo le banche piene, ci finanzieremmo Fao, Nato e Unione Europea. Tutte insieme, senza dilazioni. Un bollettino di guerra, in questi anni, che ha parlato prevalentemente di disagi, ambiguità, astio, disparità, malessere sociale. Sfollati, licenziati, imprenditori suicidi; e l’industria della microcriminalità, del piccolo spaccio, del mezzuccio borderline di sopravvivenza cresciutaci in mezzo come una gramigna non vista. Le falle si sono moltiplicate, le esigenze accavallate, i bisogni fusi in un plasma informe che accomuna vezzi e necessità. Il rischio è che, avendo perso di vista la normalità, ci accontentiamo di sopravvivere. “Basta che mi fate mangiare io vi chiamo pure mamma”, diceva il piccolo Peppeniello di Miseria e Nobiltà. Come dire: va buo’, magari poi pensiamo pure allo sviluppo e alle infrastrutture, all’ambiente e alla vivibilità, ai fondi europei e alle missioni su Marte. Ma per ora, quantomeno, garantitemi la legalità, l’abbandono di macchiette e bustarelle, gli ospedali funzionanti, le strade rappezzate, le tasse da esseri umani. C’è talmente tanto da fare che non si sa che chiedere, questo è. E il tutto è coniugato con il timore che quei palazzi napoletani, una volta riempiti, potrebbero essere ancora più distanti di quelli romani. Se non altro perché da lì, a un niente di distanza, poi servirà poco per affacciarsi e controllare: tie’, eccoti un binocolo, l’amianto qui, le discariche là, pericoli d’alluvioni un po’ più a destra. E allora se non arriverà, la mano energica del vicino influente, la percezione d’abbandono sarà ancora più frustrante di un mancato emendamento nell’ennesima rissa di Montecitorio.
Ecco perché queste elezioni saranno un banco di prova un po’ per tutti. Lo saranno per noi, quantomeno per capire se l’astinenza forzata ci ha insegnato a farci rappresentare senza la deviante mediazione del compromesso personale. E lo sarà per loro, i tanti candidati di oggi e i pochi eletti di domani: perché davvero non c’è più tempo, fiato, pazienza, facoltà di derogare. Spazio e futuro, come dicono alcuni filosofi, ora più che mai si riducono a qui e adesso.