Gli alberi della Marconi

[di Romano Carabotta]

Ci si alzava presto per raggiungere l’edificio, per molti di noi era una precisa esigenza. Il freddo delle uggiose mattinate invernali, la prospettiva di interrogazioni e compiti in classe, il disagio tutto adolescenziale di dover uscire dal proprio nido sicuro per lanciarsi nel mondo, rendevano impossibile anche al più studioso provare piacere nel correre a scuola. Eppure quasi tutti, dal più diligente al più svogliato, giungevano a scuola con largo anticipo: se la campanella suonava alle 8, già dalle 7:30 si potevano scorgere frotte di ragazzini invadere vivacemente i giardini delle Marconi. Nessun brutto voto, nessuna disavventura scolastica avrebbe giustificato il privarsi di quel piccolo grande piacere: ritrovarsi con gli amici, i primi veri amici, a passeggiare tra i viali alberati del giardino e il campetto da calcio, costeggiando la palestra e ritrovandosi di nuovo dinanzi al portone d’ingresso per raccogliere i nuovi arrivati e riprendere il giro. Quelle passeggiate prima di entrare a scuola erano, per molti di noi, una certezza incrollabile.

Solo un’attività poteva rappresentare, per noi ragazzetti, una valida e giustificabile alternativa alla compagnia degli amici peripatetici: la colazione al Bar del Professore. Lì, prima del suono della campanella, tra alunni e docenti si abbatteva ogni muro che in aula poi, tra i banchi e le cattedre, tornava ad ergersi inevitabilmente.

Le passeggiate prima di entrare in classe erano la concreta opportunità di sperimentare che si stava crescendo, inevitabilmente e per fortuna; l’occasione per metabolizzare tale processo gradualmente e condividerne l’euforia con gli amici, come una grande spontanea terapia di gruppo. Ne era segno già tanto l’esser lì, da soli, fuori dal controllo dei genitori, a parlare delle prime cotte, a disquisire di calcio, a organizzare l’uscita a via Italia del sabato sera successivo, oppure a osservare con ammirazione i colleghi più grandi.

Le macerie che oggi sorgono lì dove generazioni di battipagliesi si sono formati sono tessere che, se si trovasse il modo di rimetterle insieme, svelerebbero le speranze, i sogni, le delusioni, le risate e i pianti di migliaia di ragazzi che hanno sussurrato alle mura di quella scuola i segreti più intimi della propria giovinezza. Sono le colonne in frantumi di un luogo di cultura, letteralmente inteso: un luogo dove sono stati coltivati uomini e donne che oggi popolano il mondo, e che per quanto lontani possano essere stati spinti dalla vita, avranno sempre lì le loro radici.

Io non lo so se l’abbattimento delle scuole Marconi poteva essere evitato. Non so neppure se è metafora di una distruzione del bello e dell’antico che imperversa in città. Né so se è un caso che l’abbattimento sia iniziato solo dopo che la professoressa Liguori è andata via, colonna portante di quella scuola-come se nessuna delle due potesse esistere senza l’altra.

Un unico desiderio, tuttavia, la “generazione Marconi” può elevare ancora a questa Amministrazione, con l’ultimo rantolo di voce rimasto a chi ha perso per sempre quella scuola: si salvino gli alberi che lì sono rimasti. Così che capitando sotto le loro fronde, chiunque potrà, chiudendo gli occhi, ritornare alla tenerezza di quegli anni, preservandone il ricordo.

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