Il caseggiato
[di Lucio Spampinato]
Sono tornato qui dopo quarantatré anni. Sono sceso dal treno che albeggia appena e il caseggiato è là. Nello slargo di piazza ferrovia, col lato lungo di destra in viale Pastore e l’altro nel cortile interno, lo stabile è rimasto uguale a se stesso per tutto questo tempo. Un colore paglierino ma un po’ più scuro, gli infissi di legno; l’insieme ormai fatiscente. Le case dei ferrovieri. Nel silenzio del mattino, attraverso la strada in direzione del bar. Un caffè prima di tutto e la colazione. E rifletto sul perché sono qui. Già, nel vapore del cappuccino, la strada si mimetizza e mi sembra di riconoscere persone che una volta, a questa stessa ora, si fiondavano nell’atrio della stazione, di fretta, verso i binari. Fischia ad un tratto il giorno e sferraglia: un treno si è appena fermato. Poi, mi alzo pago ed esco: la luce del sole entra in scena, senza pudore. Mi spingo nel cortile come chi sia indeciso su una scelta da fare; indugio, aumento il passo, esito, prendo coraggio, desisto quasi. Sul citofono del primo stabile, nomi stranieri: Tlili, Farouk, Sing, Abbassi, Sandeep. Qualche vano della pulsantiera è rimasto spento, senza nome, cieco. Sopravvivono solo Anzalone e Buzzanca. Forse voglio scoprire cosa resta del tempo in questo spazio che ha dimensione solo nella mia memoria. Mi decido e citofono a caso. Una voce musicale, di donna, dice qualcosa e subito dopo il portone si apre. Si spalanca il tempo, nelle strettoie del cuore. Un profumo che non associo al luogo mi pervade; un profumo buono, quasi familiare ma più ricco di spezie, tonalità olfattive che risvegliano tracce di una memoria genetica che va molto oltre l’arco di una sola vita. Salgo le scale; l’obiettivo quasi non lo ricordo più. Per il momento mi accontento di arrivare al primo piano, dove un tempo c’era casa mia. Ad un tratto, sento una voce bambina che sembra cantilenare una poesia e una voce di donna, la stessa del citofono, la riprende dolcemente quando esita e quella, incoraggiata, ricomincia. Mi ricordo all’improvviso dei miei dieci anni e di mia madre che, dietro a quella stessa porta, mi chiedeva i fiumi e i monti della Spagna: «Ebro, Duero, Tago e Guadalquivir; Cantabrici, Pirenei, Sierra Morena e Sierra Nevada». Mi abbracciava! Non ho il coraggio di bussare. Allora, salgo fino al lucernaio dell’ultimo piano. Mi siedo sullo scalino più in alto e mi fermo a guardare l’azzurro. D’un tratto, noto lo stesso battiscopa sconnesso di un tempo. Quasi per gioco, provo a farlo scorrere verso destra. Scivola facilmente, come una volta. All’interno, come sospeso in una eternità buia e silenziosa, un astuccio da sigaro che riconosco. Lo prendo, svito il tappo dell’involucro, ne estraggo un foglio arrotolato a pergamena e mi sorprendo a leggervi un testo con la mia calligrafia: Ti vedo ogni giorno alla svolta. Tu passi leggera e, nel mattino che sale, la vita inarrivabile ha mani d’acqua.
Non pensavo che lei l’avesse conservata in questo nascondiglio che era un segreto fra noi due. Sul treno, mi volto ancora verso la città che scorre via, come a volerla imprimere nella memoria, mentre la cimata del caseggiato scompare.
18 novembre 2023 – © riproduzione riservata