Il libero della giungla
[di Ernesto Giacomino]
Ok, estate finita, anche stavolta l’abbiamo sfangata. Per sei-otto mesi parleremo d’altro, via in soffitta le polemiche sui problemi connessi allo sviluppo del turismo, dalla viabilità all’illuminazione, alla sicurezza, all’abusivismo, passando per l’annosa questione dell’inquinamento ad opera di qualche imprenditore “distratto”.
Come se la sporcizia si formasse solo allora: giusto a fine aprile, primi di maggio, il tempo necessario per metterci in difficoltà. Fino a quel momento, niente: fabbriche chiuse o sversanti in fiumi e sottosuolo solo acqua pura, additivi al nettare, scaglie di saponette.
Non è così, evidentemente. Tra un po’ partiremo con la riparazione del depuratore di Tavernola, e ok. Ma quello che troviamo in spiaggia d’estate è qualcosa di più di una contaminazione “fisiologica”: è il risultato della ferocia di un anno intero di sversi incontrollati. Sarà sufficiente, questo intervento, a classificarci come un popolo pulito?
L’inquinamento si evita, non si controlla. Se le sostanze inquinanti sono a monte, poco può fare il deterrente a valle. Ci sono norme che risultano regolarmente disattese da imprenditori furbetti, a fronte di altri che ogni anno investono migliaia d’euro per garantire alla collettività il minor impatto ambientale possibile.
Non si parla di eroi, è chiaro, ma solo di gente che fa il proprio dovere. Osservano la legge, loro, niente di più. Quella legge che impone di avere una vasca di raccolta a tenuta stagna sotto ogni fusto che contenga qualunque liquido diverso dall’acqua, ad esempio, e di farla svuotare solo a cura di imprese specializzate. Quella che ti obbliga a servirti di uno smaltitore anche solo per sversare l’olio da un macchinario o sostituire il toner dalla stampante dell’ufficio. Quella che prevede i riciclatori per tutto, perché inquina pure la carta stampata. Quella per cui sono stati istituiti il Sistri per la tracciabilità telematica dei rifiuti, i consorzi RAEE per le apparecchiature elettroniche dismesse, le isole ecologiche per i privati e i numeri verdi per l’assistenza.
Per quanto ne si sa, insomma, ciascuna industria o laboratorio o bettola con fatturato avrebbe l’obbligo di attivarsi in partenza affinché ogni singola molecola di scarto immessa nell’ambiente dal suo ciclo produttivo sia perfettamente innocua e biodegradabile. Una pre-depurazione interna, senza se e senza ma. E l’impianto pubblico dovrebbe esserne essenzialmente la sola retroguardia, il colpo finale per eliminare rischi supplementari involontariamente raccolti durante la corsa dalla città al mare.
Non occorrono particolari rilievi chimici per capire già a naso la qualità del “prodotto” che tanto le fogne che il Tusciano portano sulle nostre coste. Basta affacciarsi dal ponte di via Roma, o da quelli delle ville comunali. Può un depuratore occuparsi di lattine, plastica, bottiglie, sacchetti, pile, peluche, cenci, ciascuno a suo modo portatore – oltre che di sporcizia “visiva” – del suo buon carico di sostanze inquinanti? Verrebbe da rispondere di no.
Perché come al solito, prima della scienza, serve la coscienza. Altrimenti, con buona pace di tutti, ci sarà stato solo un cantiere in più.