Il nome della resa

[di Ernesto Giacomino]

Cercasi sviluppo sostenibile, anche usato purché in buone condizioni, capace – finalmente – d’una strizzata d’occhio a equità e solidarietà. Ché stufa un po’, francamente, osservare come parecchi poveri non siano più tali perché senza risorse, ma perché vessati dai nuovi ricchi.
Con un terzo d’uno stipendio medio-basso, vent’anni fa, ti pagavi un affitto o un piccolo mutuo: oggi ce ne vuole più della metà. La legge non scritta secondo cui, se ho qualcosa in più degli altri, ho anche l’istinto primordiale a specularci in danno dei più deboli.
Perché oggi funziona così: ho un capitale liquido, ergo un surplus rispetto alle mie esigenze di consumo che mi dà una prospettiva di esistenza – almeno sul versante economico – sostanzialmente serena, che faccio? E beh, lo utilizzo o conservo per la progenie; magari fissando, nel frattempo, un tenore di vita a cui voglio adeguarmi. Accontentandomi, in ciò, di quel minimo d’interesse che mi dà la banca per tenerlo sul conto. La funzione dei soldi, tecnicamente, sarebbe quella, no?
E invece, macché: voglio di più, voglio il massimo, voglio “le rendite”, mica so’ fesso. È la logica, neppure tanto velata, che devia gran parte della ricchezza utile su mercati alternativi (e pericolosi) come i paradisi fiscali, o le attività di ricettazione travestite da new commerce, o il vecchio e abusato mattone, che ormai da decenni garantisce l’incasso di prezzi assolutamente fuori mercato e favorisce o osteggia la serenità di famiglie e commercianti a seconda, semplicemente, del grado d’ingordigia del “padrone dei muri”.
È così: da queste parti, dalle nostre parti, se si misura il delta tra il “molto” e il “troppo” degli opulenti è straordinariamente coincidente con quello tra il “poco” e il “niente” dei meno abbienti. Tasso di umanità zero o non pervenuto.
Per questo, forse, c’è un storia recente che continua a pulsarmi in testa come un nervo infiammato. Roba di cui non ho parlato prima, principalmente perché s’era in tempi d’elezioni ed era facile passare per strumentalizzatore di mali altrui. Ma anche, in realtà, perché resto della scuola degli attendisti emotivi; di quelli a cui – quando si può – viene utile che i fatti restino a decantare per qualche settimana, per tirare su riflessioni meno contaminate dall’umore comune.
La storia è quella dell’uomo che, ai principi di marzo, m’è morto alle spalle. A poco più di cinquanta metri da casa mia, intendo. Cioè: una persona del mio quartiere chissà da quanto non aveva di che nutrirsi e ripararsi dal freddo, e alla fine si è lasciato morire. E un migliaio di persone residenti nelle vicinanze non se ne sono accorte. Io incluso, ovviamente: anzi, soprattutto io. Perché non ne conosco nemmeno il volto, di quest’uomo, per quanto di certo ci saremo incrociati per strada un’infinità di volte: quindi ho ripetutamente, ciclicamente, incontrato una persona con un disagio evidente, e non ricordo chi sia.
È questo, il risvolto tragico della farsesca corsa all’oro in cui ci siamo ficcati. Mani al caldo e sciarpa al collo, priorità massime come la lista della spesa o il ritardo al lavoro, facciamo solo rumore inutile. Fino a sovrastare – inconsapevoli ma colpevoli – anche l’urlo di solitudine di un essere umano.

7 aprile 2018 – © Riproduzione riservata
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