La Battipagliese è tornata
[di Ernesto Giacomino]
Le squadre di calcio di paese non sono squadre. Sono uno stile, un’idea, una dimensione dell’anima. E non c’entra niente se siano o meno realmente “di paese”. Esistono squadre di paese anche nelle grandi città, per dire. Nei capoluoghi, nelle metropoli, nelle megalopoli. Pure, che ne so, a New York o Nuova Delhi. Esisteranno, di sicuro, squadre di paese a Tokyo: roba con nomi tipo Sushi Soccer, Atletico Futon, Real Tatami. Col campo di terra battuta e i gradoni di cemento per gli spettatori, magari proprio di fianco al maxi-stadio da centomila posti e l’esercito di nutrizionisti e personal trainer per i top player in Lamborghini.
Perché a caratterizzare le squadre di paese non è la grandezza del contesto territoriale in cui operano o la serie calcistica in cui giocano, ma il sentimento che le anima. La volumetria del cuore della tifoseria che le segue. A caratterizzare le squadre di paese è il fatto che scendano in campo semplicemente per fare quello per cui nascono: giocare al calcio. Mettere il pallone nella porta avversaria, o sbagliare clamorosamente. Far esultare o imbufalire il pubblico, farsi espellere per la troppa confidenza con quel tale arbitro che magari in campo si è nemici ma il lunedì ci ritrova in fabbrica insieme. Vincere, senza necessità di guardare chissà quanto oltre l’obiettivo stagionale. Senza costruzioni “in prospettiva”, progetti di ristrutturazione o destrutturazione, relazioni agli azionisti e ammennicoli di bilancio. Perché le squadre di calcio di paese, ovunque giochino, da un capo all’altro del pianeta, non sono aziende quotate in borsa, non hanno loghi di multinazionali sulle magliette. Non hanno il Cda né il team manager; non fanno da scatola cinese per proprietari occulti, o da “serbatoio” per guadagni da sottrarre alla pressione fiscale. Dietro le squadre di paese ci sono, più visceralmente, persone con una passione comune. Imprenditori del territorio, professionisti. Aziende locali che danno una mano come possono. Dirigenti che rinunciano al pranzo domenicale in famiglia e si scarrozzano trasferte di decine di chilometri in pulmini dai posti contati.
Oggi da dilettanti, così come quando s’era in C1 da professionisti: quando spesso ci ficcavano pure in schedina e il nome era troppo lungo per scriverlo tutto, e allora o ci mettevano puntati o utilizzavano quei font strettissimi che gli altri sessanta milioni d’italiani non riuscivano a leggere neanche al microscopio. Noi no, invece: ci auto-adocchiavamo subito. E perdevamo vincite, alle volte, scommettendo su vittorie impossibili.
La Battipagliese non è solo tornata, non è solo in cima alla classifica: semplicemente, non se n’è mai andata. Dopo decenni, dopo speranze di decollo e minacce di sparizione, tra alti e bassi, adozioni e abbandoni, litigi e riappacificazioni, come direbbe il Vasco: eh già, noi siamo ancora qua.
Perché non è mai business ma sempre magia, incantesimo, poesia: per ogni ex proprietario che riconsegna le chiavi dello spogliatoio c’è sempre qualcun altro disposto a perdersi nella devastante tempesta emotiva di quest’avventura.
E il miracolo, in fondo, è proprio quello: ad avercela nel cuore, la propria squadra di paese, si vince già prima che inizi la partita.
3 dicembre 2022 – © riproduzione riservata