La belva addormentata

[di Ernesto Giacomino]

TuscianoDiciamocelo, il periodo è nero. Già fra Tari e Tasi e cartelle Equitalia e bollette pazze non si dormivano sonni tranquilli. E poi mettici l’incertezza per il futuro politico e amministrativo della città, il dissesto, le municipalizzate, gli interventi incompiuti, i dibattiti sulla De Amicis e sul Castelluccio e compagnia cantando. Una bolgia di punti tutt’altro che fermi, insomma: in bilico, traballanti, pericolanti.

Poi, non bastasse, ci si rivoltano contro anche quelli che credevi amici. Non le persone, dico: le cose. Tenevamo un fiumiciattolo che era poco più di un ruscello, che laddove gli altri s’ergevano in piena lui a stento s’alzava a leccare le radici dei ligustri. Il minimo estetico per ricoprire d’acqua l’immondizia custodita sul fondale. I ciottoli, sul greto, sempre così asciutti da correre il rischio di disidratarsi. Si riempiva, quel fiume, solo grazie alla magnanimità di qualche scarico abusivo di liquidi tossici; e mi meraviglio non siano mai scattati, per questo, encomi e onorificenze per l’impunito industriale di turno.

Poi, da un paio di mesi in qua, la metamorfosi. Il Tusciano furioso. Straripamenti, allagamenti, famiglie evacuate. Lui, proprio lui, l’amico fidato delle nostre inconfessate scorribande da ragazzini sulle chiazze del suo letto melmoso. Quello che a passarci sopra, da un ponte, ti ripuliva da qualunque eventuale istinto suicida: che mi butto a fare, è secco, al massimo mi taglio con gli spigoli di qualche mobile buttato.

Anche il Tusciano non ci sta, protesta, vuole dire la sua. Decenni di piogge ed acquazzoni non erano mai riusciti a smuoverlo seriamente dal suo assetto sornione: le esondazioni preoccupanti si contavano sulle dita, di norma il rimbrotto massimo si esauriva in qualche sforamento nelle zone più in basso, nei residui paludosi a zero millimetri sul livello del mare. Disagi, sì. Danni, pure: alle coltivazioni, alla flora in genere. Ma tutta roba fisiologica, dovuta, attesa: l’avrebbe fatto un qualunque torrentello di campagna.

Invece, adesso, zac: piove per più di un’ora ed è già allerta fiume. Volanti dei vigili a presidiarlo, famiglie nei dintorni che studiano le vie di fuga. A via Clarizia, nel tratto adiacente alla villa comunale, quand’è maltempo capita sempre più spesso di vederlo infuriato e spumeggiante leccare la pancia cementosa del ponte che lo sovrasta. Scuro, tossico, malato. Pericoloso. Un leone che ammicca da dietro la gabbia, che finge di restarsene imprigionato ma sa di poterne uscire quando vuole.

Un fiume vero. Proprio ora che non lo volevamo. L’abbiamo desiderato per anni, quando i tornelli fra i monti e la razzia della centrale elettrica ce lo facevano arrivare smilzo e macilento. Quando si voleva navigarlo, pescarci, crearci battigie alla foce o zone-lido per rinfrescarsi. Quando era pulito, ma piccolo. Ora è grande e sporco, e chissà che le due cose non siano in relazione. Chissà che la contaminazione col progresso non ne abbia traviato anche l’acqua: non gliel’abbia ingigantita, mutata, inferocita.

O forse, più semplicemente, è l’ennesimo vecchio amico che di colpo scopri cambiato: dalla disperazione, dal tempo, dagli stenti. Dalla solitudine di chi non è stato mai davvero amato.

12 dicembre 2014 – © riproduzione riservata

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