Là dove c’era l’erba
[di Ernesto Giacomino]
Prendo spunto dalla recente lettera aperta dell’associazione Civica Mente al proprietario del Castelluccio, l’imprenditore edile Francesco Santese (vedi sotto). Proposta educata, diretta, breve, che lo invita al tavolo comune quanto meno per impiantare la discussione sul destino del monumento. Ammesso, a questo punto, che di monumento si tratti ancora.
Abbandonata, dopo varie ristrutturazioni (non tutte riuscitissime), la velleità di attribuirgli un qualunque valore storico, nell’ultimo mezzo secolo s’è sperato almeno di rivalutarlo come patrimonio artistico e architettonico della comunità.
Macché. Hai voglia a guardarlo da giù, da “valle, in quell’unico spaccato godibile che sovrasta la città. Bellissimo, come no. Pittoresco. Romantico. Poi, però, ad andare lassù, a fissarlo proprio da vicino, a zumarlo insomma, ci aggrediscono tratti di una bruttezza infamante. Perfidamente anacronistici, ecco: tavelle a vista messe per rappezzo, finestre sbarrate con griglie, qualche infisso di fortuna di quel bel legno crepato che di antico ha ben poco. E quel cartello, “pericolo di crollo”, che è in sé una perpetua dichiarazione di resa, una gigantesca bandiera bianca capace di coprire – se non seppellire – qualunque accenno di buona volontà.
Finisse lì, poi. Assurdo a dirsi, ma nonostante brutture e decadenza il Castelluccio, lì intorno, risulta comunque il famoso re orbo nel regno dei ciechi. È l’intera zona, a fare acqua. La vegetazione incolta, le microdiscariche, la carenza d’illuminazione, le strade sconnesse, gli alberi cariati, i topi. Nel corso degli anni pare essere subentrata non semplice incuria, ma una volontà ben precisa di disinteressarsi di quel tratto preciso di città. Di dimenticarsene, di occultarlo sotto il tappeto come per una pulizia spicciola in prossimità di una visita inattesa.
Tutto vorrei, ora, fuorché mettermi a fare retorica sul Castelluccio e relativo circondario: roba tipo la memoria comune, il simbolo della città, le scampagnate coi nonni, la metafora sulla tenacia della popolazione dopo la distruzione bellica. Eccetera. Sta di fatto che una volta tanto la situazione va sintetizzata con un’espressione che non abbonda di eufemismi: uno schifo.
Ed è qui che non mi spiego come mai un proprietario, ancor più perché privato, ancor più perché investitore (nel senso di sborsatore di soldini) si disinteressi di dare decoro alle sue cose e debba essere, per questo, sollecitato da altri. Pur ammettendo – come s’è vociferato in passato – che possano esserci di mezzo questioni di principio o vecchie ruggini con questo o quell’amministratore, appare quantomeno surreale che di tanto in tanto si debba andare lì e ripetere (inutilmente, peraltro, stando ai fatti): “oh, datti una mossa che quell’investimentuccio assai costoso che hai fatto anni orsono ti sta allegramente evaporando dalle mani”.
È un po’ come se i tifosi dovessero ciclicamente ricordare al presidente della loro squadra di calcio che se ha speso milioni d’euro per un campione poi deve farlo giocare. E quell’altro, sicuro e pacato, rispondesse ogni volta: “no, di che v’impicciate, l’ho preso per sfizio: s’intona assai coi parati del soggiorno”.
11 novembre 2014 – © riproduzione riservata