La gretta via
[di Ernesto Giacomino]
Col bullismo, quand’ero ragazzino, ci ho dovuto fare i conti eccome: specie perché fino ai tredici anni tutto il mio potenziale di difesa fisica era in un metro e mezzo d’altezza e scarsi quaranta chili d’ossa.
L’unica differenza tra ora e allora era forse in termini di trasparenza d’intenzioni: i bulli battipagliesi erano rodati e dichiarati e li si conosceva un po’ tutti, frequentavano posti specifici in cui avevano le spalle coperte (dal branco, dalle famiglie, dall’omertà delle facce dietro i vetri dei balconi) e spesso evitare determinate zone, o sale giochi, o piazzette dismesse in orari non convenzionali aiutava nella famosa azione del prevenire che è meglio del curare. Non il massimo della vita, insomma, scegliere se poter andare o meno a casa d’un amico a seconda del tragitto da fare, ma ci si sopravviveva.
Certo, non è che a scuola o nel tuo stesso vicolo fossi proprio completamente al sicuro, ché il tizio che aveva visto qualche film di troppo e si riscopriva guappo lo beccavi sempre: ma ai tempi gli insegnanti avevano licenza d’intervenire e punire senza che partissero interrogazioni parlamentari dal gruppo whatsapp delle mamme informate; oppure, se mio padre bussava al dirimpettaio per dirgli che il figlio s’era mostrato irriguardoso o prepotente, il giorno dopo quello stesso figlio – per una sorta di miracolo notturno – te lo ritrovavi davanti improvvisamente gentile e premuroso; al massimo, solo stranamente sofferente quand’era il momento di sedersi.
I bulli veri no, erano tecnicamente professionisti: non si lasciavano irretire dai professori perché la scuola la disertavano istituzionalmente; non si lasciavano educare dai genitori perché il concetto d’educazione dei genitori era mandarli in strada a fare i bulli. Come dire: dovevano impratichirsi, studiare, fare esperienza in vista di prendere le redini della premiata azienda di famiglia. Ché a rimanerci male, quando ti spintonavano, o ti fregavano un pallone o le figurine, o ti sfrecciavano di fianco con la bici sgangherata sputandoti addosso, ti guardavano pure con quella faccia offesa di chi sta lavorando e s’aspetta comprensione se non collaborazione. Il guaio dei bulli d’oggi è che invece no, della loro miserabilità d’animo non ne hanno cognizione. Come vi fosse in corso una tacita, pericolosa riscrittura delle regole di interazione, che sta in qualche modo legittimando – o almeno, spostando nel paniere del “giustificabile” – l’esclusione e la denigrazione di chi è considerato difforme dagli standard imposti dai nuovi meccanismi comunicativi e di visibilità mediatica.
Cosicché l’insulto al compagno obeso o alla compagna “secchiona”, l’insubordinazione al professore mansueto, le riprese nascoste d’un atto di intimità, nell’interpretazione di chi li attua diventano – specie se sbandierati sui social o divulgati col passaparola di chat in chat – semplici, asettici strumenti di accettazione conviviale. Il portfolio di prove per pagarsi un percorso d’inclusione sociale.
La differenza, in sostanza, è che i bulli della mia infanzia oggi non ci sono più. Raccattati per strada dopo un overdose, o emigrati e spariti, o spenti nella cella d’un carcere. Quelli di ora, invece, alla lunga si confonderanno nella folla. Ed è certo che dei loro, di danni, non ne risponderanno mai.
13 febbraio 2021 – © Riproduzione riservata