La messa in opera
[di Ernesto Giacomino]
All’indomani dell’inaugurazione del sovrappasso ferroviario mi sono recato tutto entusiasta alla stazione, per verificare l’ebbrezza di questo salto spazio-temporale che dovrebbe spararti dal centro alla zona industriale nel tempo di una sigaretta. Poi, una volta là, la sorpresa: dietrofront, m’hanno detto, smammare, non è finito. “Come, non è finito?” ho chiesto. “E allora che si so’ inaugurati, ieri?” “Ah, bella questa: la messa in opera, no?”.
Cioè, detta più in spiccioli: De Luca, l’attuale sindaca, due ex sindaci e una microfolla di cariche varie erano andati lì – bloccando un paio di chilometri di strada con conseguente paralisi del traffico del sabato sera – solo per salutare la gru gigante che se ne andava. Dopo aver, bontà sua, appoggiato appena appena sui tramezzi una passerella prefabbricata. E giù brindisi, auguri e ringraziamenti a profusione a chicchessia (mi pare se ne sia beccato pure uno mia zia che stava al balcone a ritirare i panni).
Poi dice: la politica s’è involgarita, non sa più parlare, non ha più classe. Scherziamo? La politica, oggi, ha una dialettica così efficace e “perciante” che nemmeno i maestri di retorica della Grecia antica. Pensate: una volta, le opere pubbliche, pur se magari ultimate da un pezzo, si inauguravano solamente al collaudo. Poi c’è stata la svolta della flessibilità: va buo’, mo’ vogliamo aspettare pure di vedere che funzionino, inauguriamole non appena finite. Giusto qualche decennio, e zac, ulteriore evoluzione del simbolismo politico: dall’elogio dei fatti a quello delle intenzioni. Abbiamo poggiato una passerella su un ponte, magari un giorno sarà un’opera compiuta, festeggiamo oggi che domani chissà. Dimenticandoci, nel frattempo, tutto il recente tramestio inauguratorio della “nuova stazione”, poi sostanziatosi in mezza biglietteria aperta, una vergognosa persistenza di barriere architettoniche e tutta una serie di locali vuoti, inagibili o mai finiti.
Ma, per l’appunto, dicevo: la tendenza pare questa. Dire di fare per farlo considerare già fatto. Proclamare, in fondo, è un po’ fabbricare: tra un paio d’anni, chissà, brinderemo all’“avvio del bando di gara per il deposito dei progetti di riqualificazione, nel prossimo mezzo secolo, della scuola De Amicis”. E più in là, festeggeremo “lo scontrino attestante l’acquisto della risma di carta su cui scriveremo la bozza di convenzione da mandare al Gestore delle Infrastrutture che la girerà al Ministro dei Trasporti che la cestinerà poponendone un’altra che recepiremo e riscriveremo inviandola al protocollo per l’avvio della riunione mirata allo studio di fattibilità di un secondo sottopasso a via Colombo”.
E giù bottiglie stappate, abbracci, applausi, De Luca che zittirà non solo gli operai del cantiere ma pure quelli di tutte le fabbriche fino alla zona industriale di Buccino.
Perché le parole, specie quelle belle, sono fuochi d’artificio, fanno colori incredibili, sono arcobaleni di suoni a prescindere da ciò che effettivamente vogliano dire. Poi, ecco, magari l’acquazzone scompare del tutto e l’orizzonte si rimette sul grigio. Per cui affrettatevi ad aprirlo, quel sovrappasso: magari da lassù non si nota.