La nuova frontiera della cura | di Virginio Bonito
A fine febbraio, in pochi giorni l’ospedale dove lavoro da sempre, il Papa Giovanni XXIII di Bergamo, si è trasformato, è divenuto Centro di riferimento regionale per la cura delle polmoniti da Corona Virus. La riorganizzazione ha coinvolto tutti i reparti di degenza: oltre 500 dei 780 posti di degenza sono stati trasformati per accogliere pazienti con polmonite virale, 92 sono i posti di terapia intensiva dedicati ai pazienti più gravi.
Dal 6 marzo con altri neurologi e con gli infermieri della neurologia, diretti da due infettivologi, ci prendiamo cura di 46 degenti con polmonite da CoV-2. Con l’aiuto di infermieri esperti e di specialisti infettivologi, pneumologi e intensivisti, abbiamo imparato a curare con competenza crescente chi ha una polmonite virale. Ho un’esperienza specialistica, “limitata”, da neurologo ospedaliero, ho imparato presto che se volevo capire qualcosa del mio lavoro dovevo trovare un modo per guardarlo da fuori: dal 1995 una parte del mio tempo è dedicato alla cura di chi ha una malattia cronica, che non può guarire. Diversamente dal solito, in questa occasione drammatica e dolorosa, è proprio in ospedale che ho avuto l’opportunità di capire. Non mi sento in guerra e nemmeno in trincea. Non siamo al fronte, non vedo nemici, molti tirano fuori il meglio. Procediamo come pionieri, ogni giorno, in carovana, in cerca di una nuova frontiera. Vedo che, anche fuori, ci prendiamo cura gli uni degli altri, resistiamo, esploriamo, cerchiamo di capire la vita. Abbiamo imparato che la mascherina serve soprattutto per non contagiare gli altri; sappiamo sorridere con gli occhi e se ci laviamo le mani possiamo ancora riscoprire il dono di una carezza.
Ieri pomeriggio ho accompagnato in terapia intensiva una giovane donna che non conoscevo, era ricoverata da qualche giorno, per una Polmonite da Corona Virus. Dalla sera precedente era in peggioramento, non aveva più la febbre ma respirava veloce e aveva sempre più bisogno di ossigeno. Si era fatta promettere dalla giovane infettivologa, rientrata dall’Inghilterra per darci una mano, che in caso di peggioramento, soprattutto se avesse avuto bisogno della terapia intensiva, non dovevamo avvisare il marito, non voleva che si preoccupasse e temeva di far soffrire la figlia, era sicura che sarebbe guarita, dopo avrebbe avuto il tempo per raccontare.
Dopo pranzo la dispnea era aumentata, e persisteva anche dopo il passaggio alla ossigenoterapia ad alto flusso, nel casco. L’emogas-analisi non lasciava speranze.
Quando sono arrivato per iniziare il mio turno, la giovane infettivologa non poteva darmi le consegne: stava visitando la giovane donna insieme a un intensivista, che ho subito riconosciuto, era coperto dalla testa ai piedi, avevamo lavorato insieme per 25 anni; un anno fa era andato in pensione, da qualche settimana era di nuovo con noi, tutti i giorni. La collega lo aveva chiamato, non era convinta della decisione che era stata presa la mattina: la paziente non poteva essere ammessa alla terapia intensiva perché i suoi precedenti indicavano una bassissima probabilità di successo, aveva una fibrosi polmonare e la cirrosi epatica, forse autoimmune. Eppure la giovane donna era sicura che con la terapia intensiva sarebbe guarita dalla polmonite; si preoccupava più per il marito e la figlia, che per la sua salute. La giovane infettivologa aveva dei dubbi, c’erano diversi punti che dovevano essere chiariti, ha chiamato lo pneumologo che l’aveva in cura che è subito arrivato per il consulto: l’aveva visitata qualche settimana prima per il periodico controllo della fibrosi polmonare stabile da anni, anche l’epatopatia sembrava stabilizzata, lui era del parere che valeva la pena di provare anche la ventilazione invasiva. La paziente ora dormiva era appena stata sedata per alleviare la dispnea, ma aveva già dato il suo consenso. Anche il mio amico intensivista pensava che la decisione doveva essere cambiata, era il momento di trasferirla in terapia intensiva. La giovane infettivologa era commossa, le sembrava che quella fosse una decisione migliore. Si è finalmente seduta, ha alzato il telefono e ha chiamato il marito della giovane donna. Io ero lì che preparavo la relazione per il trasferimento.
Sappiamo tutti che questa epidemia ha determinato un incredibile aumento di posti letto in terapia intensiva, per un paio di settimane dalla TI di Bergamo i malati sono stati trasferiti nelle TI di altre regioni e di altri stati europei. Quello che probabilmente non tutti sanno è che in queste settimane, i posti disponibili sono stati insufficienti ad accogliere tutti: facciamo fatica a raccontarlo, ma per far posto a chi aveva maggiori probabilità di successo è stato necessario decidere di non iniziare o di sospendere la TI in persone che avevano una minore probabilità di sopravvivere. Quello che fino a un mese fa era una decisione eccezionale, legata a circostanze rarissime, con l’epidemia è divenuta una decisione quotidiana. Il dilemma “chi devo curare se non posso curare tutti” è stato negato dai più. Pochi l’hanno ammesso, qualcuno come il mio amico intensivista l’ha raccontato come una scelta che “spezza il cuore”, che qualche volta deve essere presa nell’emergenza di una crisi respiratoria. Questa decisione spesso coinvolge più medici: curanti e consulenti si alternano al letto del paziente, valutano i dati clinici talvolta incompleti, incerti, o di non univoca interpretazione. Ciascuno degli specialisti è portatore di competenze, interessi e responsabilità diverse, spesso implicite, difficili da condividere o in conflitto tra loro. In ogni caso si tratta di decidere nell’incertezza, stimando la probabilità degli esiti, spesso senza poter conoscere il valore che a questi esiti avrebbe attribuito il paziente. (…)
Nel frattempo i curanti, come esploratori alla scoperta della nuova frontiera della cura, continueranno a impegnarsi alla ricerca di una decisione migliore, rispettosa, sostenibile ed equa. Anche nell’emergenza, una buona decisione è possibile, affonda le sue radici nella biografia della persona, nelle speranze raccolte al telefono dai suoi familiari lontani, talvolta in quarantena. È prezioso il tempo della cura che precede la crisi respiratoria e la terapia intensiva; è il tempo in cui possiamo ancora ascoltare la persona, conoscere i suoi desideri, permetterle di partecipare alla pianificazione delle cure e prometterle che in ogni caso non sarà mai abbandonata.
Virginio Bonito
medico neurologo, Ospedale Papa Giovanni XXIII Bergamo
23 aprile 2020 – © Riproduzione riservata