La pece nel mondo
[di Ernesto Giacomino]
Pare siano tornate di moda le risse nelle discoteche, a Battipaglia. Nel 2019, sì. Per i bei motivi importantissimi di una volta, immagino: uno sguardo di troppo, un’occhiata alla ragazza di uno o dell’altro. Per un bicchiere in più. Per una spallata nella folla. Perché il dj avrà messo un pezzo che chi detestava e chi apprezzava.
In genere è per così poco, o anche meno, che s’arriva alle mani, ai calci, alle testate. Ancora, nel terzo millennio. Nell’epoca dell’esplorazione di Marte e dei cellulari pieghevoli. Mentre magari all’indomani abbiamo la sveglia all’alba, un datore di lavoro che ci paga in nero quattro euro l’ora, lo sfratto esecutivo perché al padrone delle mura gli è venuto d’aumentarci l’affitto del triplo, un genitore allettato a cui negano la pensione d’invalidità perché i pollici ancora li muove.
Accettiamo tutta l’ingiustizia e la barbarie di questo mondo, pieghiamo la testa ai soprusi – o al massimo, quando c’è concesso, ci allineiamo – ma non sopportiamo che ci pestino un piede ballando, che ci facciano scivolare il ghiaccio dal bicchiere, che un estraneo gradisca l’acconciatura della nostra donna. È lì, che sfoghiamo la rabbia: nel nulla. È lì che ci rifacciamo del futuro rubato, della dignità negata, dei diritti cancellati: nel pretesto, nella provocazione. Meglio se intangibili, di bassa lega, equivocati, appena accennati. Lasciano più spazio alla libera – e furiosa – immaginazione.
Siamo piccoli, prima ancora che mentalmente, proprio anagraficamente. Teste di quattordicenni nei corpi tatuati e lampadati di trenta/quaranta/cinquantenni e anche oltre. E a un quattordicenne non puoi parlare di moderazione, senso civico, tolleranza: quelle sono conquiste del dopoguerra, e lui col programma di scuola non c’è ancora arrivato.
Un giorno qualche scienziato lo scoprirà, il motivo per il quale una corposa fetta di umani si dedica ad attività che dovrebbero essere di svago e relax col paradossale scopo di cercarvi invece caos e violenza. Succede in discoteca, sì, ma anche a passeggio per strade e piazze, all’uscita in macchina per lo shopping o una pizza, negli stadi e nei palazzetti. Quasi si fosse mossi da un subdolo, inarrestabile istinto di contaminazione della serenità, di un’avversione congenita per i luoghi e le situazioni di pace, da un’inquietudine che cerca e istiga reciprocità scegliendo le maniere forti.
Sarebbe facile, ora, fare di queste diffuse spizzate d’orgoglio da capobranco il capro espiatorio della recente spinta masochista e nevrotica dell’elettorato verso derive estremiste: e beh, sai, i giovani d’oggi so’ così, rabbiosi e impazienti, o tutto o niente. Per fortuna – o purtroppo – così non è. Fondere politica e costume in un rapporto esclusivo di causa-effetto è sempre un esperimento pericoloso se non inutile, perché i modelli comportamentali di ogni generazione sono figli di fenomeni esattamente opposti, alla partecipazione: appartengono prevalentemente alla disinformazione, all’ignoranza dei contenuti, all’assenza di metodologie di comunicazione efficaci.
Perché, quando vieni su convinto di dover combattere una guerra, non c’è situazione più favorevole che quella di non sapere da che parte stai: per comodità – o pigrizia – consideri tutti nemici.
8 marzo 2019 – © Riproduzione riservata